giovedì 17 maggio 2012

voci femminili italiane "del jazz"

Quando sostengo che i musicisti di jazz italiani sono solo dei grandi interpreti, dei grandi derivati, gli stessi logicamente, cercano di farmi ricredere. Ma allora, perché non spiegano come mai tra i nomi delle grandi voci femminili, come Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, Anita O’Day, Carmen Mc Rae, Billie Holiday, Shirley Horn, Diana Krall, Dee Dee Bridgewater, Abbey Lincoln, Rachelle Ferrell non ne compare uno italiano? Qualcuno mi farà nomi di donne accompagnate da egregi pianisti italiani che si esibiscono nei locali principali di jazz in Italia o che presenziano nelle manifestazioni importanti, tipo “Umbria Jazz”, manifestazione che cade sempre di più nel ridicolo perdendo di credibilità, presentando personaggi che non hanno nulla a che vedere con il jazz. Conosco queste cantanti.  Sono  brave, hanno una  buona tecnica e una bella voce. Ma nessuna, assolutamente nessuna, può definirsi cantante di jazz. Innanzitutto, le improvvisazioni non si dovrebbero studiare a tavolino. È assolutamente inutile strappare un applauso avendo fatto una modulazione, anche complicata, studiandola prima per ore. Ho sentito una esibizione di “’Round Midnight”, in una importante manifestazione romana svoltasi qualche anno fa  al Colosseo. Meravigliosa. Perfetta. Ma il pubblico ha applaudito a qualcosa che credeva fosse jazz. Sono certa che se lo standard fosse stato ricantato, sarebbe risultato uguale. Non era una interpretazione spontanea e istintiva come dovrebbe essere. Inoltre mi meraviglia che molte di queste cantanti affermino di poter insegnare il canto jazz, usando paroloni del genere “lezioni di canto, di improvvisazione e tecnica jazz”. Ma mi chiedo: “lo sanno da dove viene, come nasce e chi è il vero jazzista? Come si può pensare di poter insegnare il jazz?”, e mi rivolgo anche alle tante scuole che in Italia producono “jazzisti” di ogni specie, che dopo due o tre anni di corso credono di essere possessori della verità e che, al momento di dover effettuare una trasposizione vanno in crisi, musicisti ai quali quando chiedi di suonare uno standard del passato non sanno quale sia, musicisti ai quali non puoi chiedere anima ma solo una valanga di note, alla velocità di una Ferrari guidata da Schumacher, ma con il cuore lasciato in garage. Siamo pieni di cantanti che si reputano le “lady del jazz”, un po’ per vanità, un po’ perché caricate di responsabilità quando vengono presentate da un Pippo Baudo qualsiasi che, di jazz, dimostra non avere conoscenza. Siamo pieni di cantanti che duettano in giro per le trasmissioni televisive, cominciando con una serie di ululati senza senso, citando improvvisazioni più che precise di cantanti del calibro di Frank Sinatra e terminando con acuti freddi destinati a fare solo scena. Non sono contraria alle loro esibizioni. Ma vorrei che si distinguesse la cantante jazz dall’interprete jazz, perché da amante e conoscitrice di questa musica, mi ferisce vedere ingannato il pubblico che, in questo modo, non imparerà mai ad amare il jazz vero, non avendo occasione di conoscerlo e mi ferisce sentir dire che queste donne sono agli stessi livelli di una Cassandra Wilson, di una Diana Krall (che ricordo nella sua comparsa a San Remo come ospite, quando disse chiaramente di non conoscere nemmeno un jazzista italiano). Ci sono delle improvvisazioni sono talmente perfette, effettuate dai jazzisti americani che sono protette dal copyright e esistono versioni ormai note per la bellezza e per l’unicità, ripetute alla nota dai nostri musicisti che però, non precisando quale jazzista stiano citando, lasciano che il pubblico si convinca che la bravura e la genialità sia la loro, come è capitato a me di sentire anni fa, in un noto club di jazz romano, uno dei più grandi sassofonisti tenore italiano prendere applausi suonando lo standard “Body and Soul”, nella stessa e identica versione di Stan Getz. E mi dispiace dire che queste sono le occasioni che allontanano quei pochi conoscitori di jazz, perché si sentono ingannati e non provano nuove emozioni.  Billie Holiday saprà spiegare meglio il concetto. “Quando ti capita una melodia non c’è affatto bisogno di seguire gli stili di altri. La senti e basta. Solo così gli altri sentono qualcosa. Quando canto una canzone, ogni volta la rivivo come la prima volta. Non si può copiare un altro e nello stesso tempo pretendere di arrivare a qualcosa. Se tu copi è perché il tuo lavoro non ha un sentimento sincero e, senza sentimento, nessuna delle cose che fai avrà realmente un valore. Come non ci sono al mondo due persone uguali, così dev’essere anche con la musica, sennò non è musica. A me non riesce cantare una canzone nella medesima maniera per due sere di fila”. Ma voglio terminare con una frase ancora più efficace di Chet Baker. “Non preparo mai nulla prima di un concerto. L’arte non si ripete mai. Non avrebbe senso fare jazz esercitandomi su qualcosa che poi sul palco deve essere diverso, meglio o peggio ma di sicuro diverso, se vuole essere jazz”.


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