Omaggio a lui...Chet



Se è vero che la musica è la mano di Dio sulla spalla di un uomo, come disse Leonardo da Vinci, chiunque abbia ascoltato Chet Baker, anche solo per una volta, avrà sentito quella mano adagiarsi sul proprio corpo. “L’angelo dalla faccia sporca”, il poeta in assoluto della tromba del cool jazz e, se è altrettanto vero che il jazz è l’espressione della propria vita trasformata in musica, Chet Baker è uno dei veri jazzisti che tutta la storia della musica ricordi, annullando in un solo colpo, tutti quei musicisti, soprattutto del presente, che credono che il jazz sia uno stile musicale come un altro, forse solo un po’ più complesso, ma che resta una musica dal quale ci si può distaccare e allontanare. Invece no. E Chet lo aveva capito. Anzi, più che averlo capito, Chet  lo era. Nelle sue note, c’è tutta la sua vita caratterizzata da un’infanzia complessa, da una madre presente solo nei momenti in cui deve mettere in risalto la sua bellezza solo per un vanto personale, da una padre che lo picchia e che si droga davanti a lui mentre cerca invano di dimostrarsi un grande musicista. Nella sua voce e in quella della sua tromba si legge la sua esistenza fatta di droga, carceri, donne, successo e fama, il tutto mescolato ad una forte sensibilità e ad una passione per la musica che è stata l’unica cosa che lo abbia mai fatto sentire vivo.
Ogni sua interpretazione è un quadro del Van Gogh, un’opera del Michelangelo, la giornata più bella della vita di un uomo, una fotografia con i colori giusti che ritratta Dio che gioca con un cane.
Si resta incatenati e sbigottiti dalla sua bravura, dalla sua capacità di capire tutto al volo, dalla sua facilità di interpretare e improvvisare trasformando una frase semplice in un poema magistrale. Così semplice e così complicato allo stesso momento. E meraviglia il fatto che tutta questa genialità viene da un ragazzino vestito da adulto, chiuso, riservato, silenzioso quasi fosse annoiato dal mondo.  Il suo corpo prende vita solo quando abbraccia lo strumento e gli regala tutto il suo fiato. Il suo modo di cominciare a suonare è un rito. Cammina lento verso lo sgabello, si siede e, prendendo tra le mani la sua tromba, che tra le sue labbra diventa un flicorno, abbassa le spalle e si chiude in sé, come se stesse intraprendendo un discorso intimo con una persona che solo lui conosce e che, molto spesso, è la parte più profonda di sé stesso.
Chet è la prova eclatante che il jazz non è solo nero al punto che Miles Davis lo teme e lo odia riconoscendo in lui una figura pericolosa e impossibile da superare. Invece, Charlie Parker, più sensibile alle genialità, sente nel suo suono l’urlo dell’anima e, in una selezione organizzata per trovare una tromba che lo seguisse nei suoi concerti, lo sceglie tra le tante figure tenute in piedi dalla speranza di essere udite da Bird. È precisamente da quel momento che per Chet si apre una strada fatta di successi, uno dopo l’altro, segnati da ingaggi, concerti e incisioni invidiabili, da collaborazioni con i migliori jazzisti del momento. Il suo modo di cantare è sublime. Inizialmente, la sua voce un po’ effeminata per la sua delicatezza e per la sua sensualità, viene derisa e non capita. A distanza di tempo, si è colto nella stessa quel qualcosa di magico, di selvaggio, di misterioso,  che lo rende, ancora oggi,  inimitabile. È ipnotizzante e a sentirlo gli si rimane imprigionati.  Piacevolmente imprigionati. La sua espressione vocale è meravigliosamente seduttiva. Riuscirebbe a scatenare un’emozione anche ad una stalattite. Chet vuole interpretare, essere naturale, sembra che nel momento in cui deve uscire la prima parola, si ripeta  “non cantare, Chet. Parla. Lascia parlare la tua anima.”. E la stessa cosa succede con la tromba.
Ricordandolo, Chet non vorrebbe mai sentir parlare dei suoi problemi con la droga. Davanti ad uno dei soliti  problemi con la giustizia dice: “perché state cercando di distruggermi? Queste parole cattive nei miei confronti. Queste stronzate non fanno per me. Si. Mi drogo ma non ho fatto mai male a nessuno! Non ho mai infastidito nessuno. Non ho mai venduto droga a nessuno. Ho fatto tutto solo per me stesso”. È stanco della crudeltà della stampa e delle risate dei governatori della giustizia che, in effetti, aspettano con ansia che Chet cada in qualche trappola, aspettano di incontrarlo con la droga in tasca o a parlare con uno spacciatore.
Ecco perché ricordandolo, bisognerebbe solo parlare della sua musica, della sua tecnica nella quale non c’è spazio per note inutili, per fraseggi composti da mille biscrome che corrono all’impazzata verso chissà dove. La sua musica è come un suo discorso. Poche parole, ma quando parla sa cosa dice e ha sempre un senso. Questo è il messaggio di  Chet.
In una rassegna jazz italiana di tanti anni fa, svoltasi a Roma, erano presenti i nomi più importanti del panorama jazzistico italiano e Chet era l’ospite d’onore. Durante l’esibizione di tutti i musicisti, Chet era dietro ad un pianoforte che ascoltava, sempre piegato su sé stesso, con la sua tromba appoggiata per terra come se stesse riposando in attesa della sua performance. Dopo un po’ la prese tra le mani e cominciò a muovere le dita, apparentemente a vuoto, ma sicuramente nella sua testa stava cantando qualcosa e quello era il suo modo di entrare in contatto con la sua “metà”. Nel frattempo, si udivano note dopo note, veloci, arpeggi tecnicamente maestosi, chorus incalzanti caratterizzati da improvvisazioni pungenti e spinte. “E’ con noi il grande Chet Baker”. È il suo momento. Si alza, trascinando il suo corpo lento e stanco, e si avvicina al microfono. Nel silenzio più soffocato si sente un fiato che dura qualche attimo e poi una lunga nota, fissa nell’aria, seguite dalle note di “My funny Valentine” . Ripropose lo stesso tema che aveva udito fino a quel momento, ma facendo prevalere l’anima sulla tecnica. I suoi chorus erano lunghi, raffinati, suadenti. Ricomparve il tema vero di quello standard, il tema forte, malinconico, unico. Un giornalista incompetente disse che l’esibizione doveva ancora iniziare, a causa della scarsa quantità di note che Chet utilizzò nell’improvvisazione. Purtroppo, molti sono convinti che il jazz sia l’agglomeramento di note suonate ad una velocità talentuosa. Ed è proprio questo, invece, che Chet andava a dimostrare. Infatti, qualcuno che, invece, sa cosa significa “Jazz”, scrisse: “Confronto tra musicisti del Conservatorio Santa Cecilia e il jazz di Chet Baker. Il conservatorio ne è uscito perdente”.
Da Chet si può ancora imparare tanto. La sua improvvisazione, la sua intonazione, il grande senso del ritmo e soprattutto la capacità di suonare, non con le labbra, non con il diaframma, ma con l’anima, senza la quale, diceva sempre, non si arriva da nessuna parte, tanto meno non si arriva a fare jazz. La sua tromba è dolce, calda, energica. La sua parola d’ordine è: “istinto”, suonare in modo viscerale. E chi ancora oggi lo identifica come qualcuno senza virilità, deve andarsi a rileggere il significato di alcuni termini, quali “sentimento”, “passione”, e dentro ci ritroverà la sua musica.
Quella sera è caduto da solo dal balcone ad Amsterdam o qualcuno lo ha spinto? Chet è stato tutto un mistero e se ne è andato lasciando un mistero. Chi conosce la sua storia, non crede al suicidio. Nonostante il suo continuo stuprarsi, Chet aveva ancora tanto da dire e lo voleva fare. Ha vissuto situazioni davvero indescrivibili, momenti in cui ancora ci si chiede come abbia fatto a sopravvivere. Ma poi si alzava e creava l’atmosfera giusta. E la sua vita aveva un senso.
Al Prins Hendrik c’è un’immagine di Chet con una scritta: “Qui il 13 maggio 1988, moriva il trombettista e cantante Chet Baker. Sopravviverà nella sua musica per chiunque abbia voglia di ascoltare ed emozionarsi”.
“Per me improvvisare è come raccontare una storia ad un bambino. Non puoi dire un mucchio di parole che non capirebbe: devi cominciare con una frase semplice e poi svilupparla”. Ecco chi era Chettie.

DICONO DI LUI

Carlo Loffredo
       Tra il suo modo di cantare e quello di suonare la differenza è nulla. Cantava esattamente come suonava e quando cantava era come se avesse avuto la tomba in bocca…(…) Armostrong e Gillespie suonano in un modo e cantano in un altro, mentre Chet Baker no. Il bello è qui.
       La sua sembra una voce di un bambino spaurito che ha rubato la marmellata e ha paura del rimprovero.
       Stranamente quando suonava e cantava trasmetteva un senso di serenità.
       Il posto del successore di Chet Baker nella storia del jazz è ancora vuoto.
       Si rannicchiava su se stesso, non parlava alla gente, aveva l’aria patita, quella del sofferente, come quello “che mò more”.
       Tutto dentro, due notine sofferte, ogni volta pareva che dovesse morire, ma quello che attirava l’attenzione della gente era proprio la sua grande musicalità, e niente altro.

Adriano Mazzoletti
       Amava molto le parole delle canzoni e diceva che non poteva suonare un pezzo, una ballad, se non conosceva le parole.

Giorgio Vanni
       Chet è uno che al jazz ha dato veramente tutto e non ha mai tradito il suo essere musicista, è sempre stato coerente con se stesso. Ha regalato al jazz la sua grande poesia e forse è stato l’unico artista ad aver dato così tanto a questa musica in questi ultimi anni.

Gianni Basso
       Chet era una jazzista come loro, ma era qualcosa di più, era un artista. Ogni volta che si esprimeva con la sua tromba o con il suo canto diceva qualcosa di nuovo, non c’era mai niente di preparato, era esclusivamente lui, e diceva cose importanti.

Oscar Valdambrini
       Chet è sicuramente una delle più grandi teste romantiche, non l’ho mai sentito fare una cosa che non mi sia piaciuta, quello che faceva era sempre autentico. Invece sul piano personale non andava bene, come uomo non valeva, pensava solo ai suoi interessi. Ma i grandi artisti non possono essere perfetti, non si può pretendere che siano onesti o generosi, perché l’altra parte è già immensa. Quello che fa grande un artista è quello che lascia, e un jazzista lascia solo dei dischi, che in genere si esauriscono dopo qualche tempo. Ma questo non vale per i grandi, i loro dischi si possono ascoltare all’infinito, non sono datati, non invecchiano mai. I dischi di Chet sono pieni di ispirazione, dal primo all’ultimo, sono un vero patrimonio.
       La grandezza di un jazzista è in primo luogo nello swing e poi nella capacità di esternare qualcosa di veramente valido nei momenti giusti.

Picchi Pignatelli
       Era estremamente vitale e aveva uno sconfinato amore per la musica. Non era malinconico, era semplicemente innamorato della musica.
       Continuava a dire che tutto quello che voleva era suonare sempre, non gli importava di guadagnare meno purché suonasse ogni sera. Era un vero e proprio bisogno.
       Penso che le persone che ti danno delle forti emozioni non si dissolvono.
       Non aveva tempo di farsi tante domande. Proprio perché viveva e lo faceva molto violentemente, nel modo più intenso possibile.

Giovanni Tommaso
       Io considero Chet uno dei più grandi musicisti bianchi della storia del jazz, e forse il più grande cantante bianco.
       Quando un musicista ha uno spessore artistico di quel tipo, ha quasi sempre ragione, proprio perché ha una visione della musica più globale.
       Aveva la facilità di essere se stesso attraverso la musica, e questo suo trasmettere la sua personalità melanconica in modo così limpido, faceva di lui un grande artista.
       Mulligan odiava il modo in cui Chet si comportava, la sua concezione esistenziale e le sue scelte, ma disse anche che appena poggiava la tromba sulle labbra non poteva più dire niente.
       Chet è il più grande cantante bianco che il jazz abbia mai avuto, il suo sound è assolutamente personale e riconoscibile, dopo tre note si individua, e anche questo non è poco.
       La sua tromba e la sua voce sono uniche.

Enrico Rava
       Quando suonava riusciva sempre a dare delle forti emozioni.
       Aveva questa fortuna, che poi è anche la nostra, perché le emozioni che ci ha dato Chet sono irripetibili.
       Se vogliamo parlare di un trombettista, Wynton Marsalis, non sbaglia mai, ma per me quello che fa è tutto sbagliato, dalla prima nota fino all’ultima. Non c’è mai neanche un attimo che mi tocchi. Forse è un fatto puramente esteriore, tutto è pensato e fatto benissimo, ma è come se lui non sentisse, e quindi neanche io.(…) La tecnica è una cosa molto lontana dall’arte.

Massimo Morriconi
       L’essenza del suo fraseggio era unica, come pure il suo modo mai meccanico di proporre qualcosa. Usava la voce come il suo strumento, il suo scat cambiava continuamente registro, era di gran qualità, uno scat assolutamente puro.
       Chet aveva un dono di natura molto raro, aveva il coraggio di essere se stesso.
       Il suo è un modo di suonare che sta sparendo, che è quello di suonare col cuore. Con Chet ho vissuto tra i momenti più belli e profondi da quando faccio musica. E credo che insieme a Bill Evans sia stato l’ultimo dei poeti.

Giampaolo Ascolese
       Era quasi magico.
       Una volta mi strinse una mano e rimasi colpito dalla forza della sua stretta, che era sorprendente.
       Chet era unico, come unica è la sua impronta, che è un’impronta da caposcuola.

Piero Pizzi Cannella
       Era come se tutta la sua musica in qualche modo passasse attraverso la sua faccia.
       C’era una cosa sua che mi piaceva, cantava sempre e dovunque, allora io e altri amici gli chiedevamo: “come faceva quella canzone di quel film francese?”, e lui iniziava a cantare, e le sapeva tutte.
       Chet era un creatore di atmosfere. Suscitava emozioni, con lui si aveva l’impressione di essere nel posto giusto, sempre e comunque.
       Essere egoista è diverso. Tutti gli artisti lo sono.
       Gli artisti sono maturi, lucidi, hanno bisogno di avere una lucidità superiore rispetto agli altri uomini.
       Gli si perdonava tutto? No, Chet non aveva niente di che farsi perdonare, era un uomo che pagava tutto in prima persona. Non doveva nascondere niente, e neanche poteva, pensa alla sua faccia… Ha pagato con la sua vita, il suo rapporto con la droga, il suo rapporto distratto con il denaro, la sua disorganizzazione. Ha pagato anche l’aver coscienza della sua forza, di una sua certa superbia, ha pagato il fatto di essere più forte degli altri.
       Non credo che per lui la morte fosse un fatto drammatico, era come se lui il dramma l’avesse consumato giorno per giorno, la morte era una compagna di strada.

Stefano Sabatini
       Chet amava fare della ballad lentissime, che duravano a lungo. Mi ricordo di una sera che fece una versione spettacolare di “I’m a fool to want you” da immaginare senza batteria e lentissima, era veramente notevole.
       Amava cantare almeno quanto amava suonare.
       Non si è mai capito se leggesse la musica. Mi capitò due o tre volte di chiedergli in che tonalità faceva un pezzo: mi rispose sempre che non lo sapeva, che non conosceva gli accordi. Diceva di conoscere solo la nota in cui un pezzo iniziava, e che poi andava ad orecchio.

Maurizio Quercini
       La cosa che più lo irritava era secondo me l’ignoranza, la mancanza di stile.
       La sua irascibilità veniva dalla discrepanza che c’è tra il fatto di essere cosciente di sé e i trattamenti non all’altezza che spesso riceveva.
       Secondo me era una persona malinconica, fino alla cupezza, fino ad una chiusura dolorosa e rabbiosa.

Luca Flores
       Non faceva compromessi, per quanto riguardava la musica.
Roberto gatto
       Chet era molto umorale, delle sere era assolutamente arrabbiato e contrariato, altre ancora era molto dolce, fino ad essere imbarazzante con i complimenti.

Marco Fratini
       Ha vissuto la sua vita sempre al massimo delle emozioni.

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