giovedì 17 maggio 2012

IL SUONO DEL PASSATO


     Quanto lo infastidiva quella luce dell’insegna di un piccolo market, che, filtrando dalla sua finestra, gli entrava dritto negli occhi, spenti dall’ incapacità, giunta troppo presto, di riuscire a emozionarsi ancora, soffiando nel suo sax. Ma non riusciva ad alzarsi. Non riusciva a muoversi.
     Il suo corpo giaceva fermo su un letto macchiato da gocce di sangue, vecchie, putrefatte, scese da tutte le parti del suo corpo che bucava iniettandosi tutto quello che poteva placare il suo dolore fisico e che poteva fargli ritrovare la chiave giusta che lo conducesse nella parte più intima della sua vita, quella parte di sé stesso che riusciva a raggiungere solo con l’improvvisazione, con l’istinto. La sua pelle era tutta segnata. Ormai si bucava dietro le ginocchia, sui piedi, alle gambe, all’inguine, perché le vene delle braccia erano diventate uno “scolapasta”, come si divertiva a definirle con gli amici, ironizzando la sua dipendenza.
     Accanto al letto, il suo sax, color argento, il suo solo compagno che non lo tradiva mai, il compagno con il quale lui, una sera faceva sesso, una sera lo accarezzava soltanto, muovendo su di lui lentamente le sue mani, un’altra sera ancora lo stuprava. E quello strumento, così silenzioso, anche in quel momento così vicino alla morte, era lì, presente a ricordargli i suoi ieri.
      Sdraiato su quel letto, si ricordò di quella sera, di un anno prima, agosto 1955, al Birdland. Arrivò al locale con la sua custodia nera, scorticata ai lati e con dei pezzi di rivestimento mancanti. Era ovvio che l’aveva usata spesso per difendersi da cazzotti di spacciatori che lo cercavano ovunque per i suoi debiti. Si fece spazio tra i tavolini con quell’aria da simpaticone, sicuro di sé, della sua fama, del suo fascino e sorrideva a tutti  quelli che si erano recati lì per sentire proprio lui. Salì sul palco che risultava stretto per il suo trio, ma non fece notare quanto questo difetto lo annoiasse. Si adagiò sullo sgabello vicino al piano, aprì la custodia e uscì il sassofono segnato, anch’esso come lui, dal tempo e dalla stanchezza. Lo prese tra le mani come se fosse una donna. Quella sera con decisione, con passione. Liberò le sue dita dal nervosismo e dalla pigrizia di tutta una giornata e inumidì le sue labbra. Aggiustò l’ancia del bocchino, prendendosi tutto il tempo che gli occorreva, senza preoccuparsi del fatto che non aveva nemmeno salutato i suoi colleghi. Ma poi, del resto, perché lo doveva fare? La star era lui. Un gesto rapido del braccio destro, dal basso verso l’alto, tipico gesto di chi comincia un brano in levare, segnò l’inizio di “Stella By Starlight”.
      Voleva tutta l’attenzione per sé e ci riusciva egregiamente. Il suo suono, vellutato ma deciso, a volte dolce e a volte crudele, le note basse e la sua immensa tecnica, che però mostrava appena, piano piano, come se non volesse essere invadente verso la canzone stessa, tutto questo faceva dimenticare a chi lo aveva di fronte, il modo poco elegante di presentarsi, i pantaloni sporchi di sudore, le scarpe che spiegavano esattamente i luoghi dove si era recato un attimo prima, i capelli grassi tirati all’indietro. Eppure, quando suonava, diventava la persona più bella e perfetta che si volesse incontrare nella propria vita. Aveva un suono seducente, pulito. Si rimaneva prigionieri della sua voce. Piacevolmente prigionieri e dipendenti. Non c’erano occhi aperti tra il pubblico. Tutti sognavano. E i sogni erano sempre gli stessi. Un uomo vicino al bar sognava la donna che aveva accanto. Un altro, più vicino alla cucina, sognava la ragazza che incontrava di nascosto dalla moglie. Una giovane donna in piedi, appoggiata al pilastro centrale del locale, sognava di vivere proprio con lui, non immaginando minimamente quanto sarebbe stata impossibile la sua vita, se questo fosse potuto realmente accadere. Lui appariva bello, sano, sereno. E magari lei pensava a quanto sarebbe stato meraviglioso portargli il thè, mentre lui suonava per lei gli standards più romantici mai scritti dai musicisti americani. Che ingenua. Non sapeva che lui suonava per sé stesso, mai per una donna, mai per un cane, mai per nessuno che non fosse lui. E non sapeva che la sua vita, a casa, non si svolgeva tra l’ascolto di un disco e un bacio alla sua compagna, bensì, dormendo poco, mangiando di meno, riducendo la sua pelle ad un lungo terreno segnato da graffi e croste. La sua vita era alla ricerca continua di una iniezione e, tra una iniezione e l’altra, viveva l’angoscia della morte.
      Però, che serata fantastica fu quella. Rideva con orgoglio e malinconia ricordando gli applausi per i suoi assoli strepitosi, la gente che si alzava in piedi per sottolineare le improvvisazioni, le urla di consenso al termine di ogni interpretazione calda e coinvolgente.
      Ora delle lacrime scendevano dai suoi occhi. Essendo sdraiato di lato, alcune trovarono casa immediatamente in una piega del cuscino, altre, invece, scivolarono prima sul naso, poi sulle guance, di seguito sulle labbra, per morire, infine, sul suo collo. Ma quel pianto durò poco. Cominciava ad avvertire fitte allo stomaco e il suo volto commosso dai ricordi, si irrigidì e indossò la maschera di sempre, quella in cerca di droga. Dedicò un pensiero di odio al mondo accorgendosi che non aveva nulla da spararsi nel sangue.
      Aveva tentato più volte di finirla con quello schifo. A volte, per mancanza di soldi si iniettava dell’alcool, accusando dolori atroci al punto da dover essere portato urgentemente all’ospedale. Certe volte era davvero deciso a pulirsi. Ma era più forte di sé. Come smetteva di drogarsi, notava che qualcosa non andava nel suo modo di suonare. Gli mancavano le idee, le proposte, l’abilità di emozionarsi e di emozionare, non riusciva a trovare le note giuste che rendessero un’improvvisazione degna del suo nome. Non trovava l’ispirazione e anche il suono che usciva dal suo strumento era freddo, senza vita.
      Cercando di alzarsi fece cadere un bicchiere vuoto che aveva sul comodino. Si trattava di un bicchiere di gin che aveva bevuto chissà quanti giorni prima perché cadendo, il bicchiere aveva lasciato un segno rotondo creatosi dal liquido misto a polvere e briciole di biscotti.
      Dopo pochi secondi che era in piedi, sentì la necessità di risedersi a letto e, avendo problemi nel mettere a fuoco le immagini, si portò la testa tra le mani e si strofinò gli occhi con le dita, come fanno i bambini quando si svegliano. In quel preciso istante, gli venne in mente un’altra serata. Una maledetta serata.
     Aveva appuntamento con uno spacciatore all’interno di un palazzo in costruzione, vicino al locale dove doveva esibirsi un’ora dopo. E sapeva, che senza quella droga, non avrebbe potuto suonare. Era ormai giunta l’ora di salire sul palco. I colleghi cominciarono a innervosirsi per l’attesa. La gente a sbuffare. Il padrone del locale a minacciare. Ma lui era lì in quel nascondiglio, solo con le sue fitte allo stomaco, con il sangue che usciva dalle croste che, per la rabbia, si scorticava. Quando ormai non ci sperava più, l’immagine di un ragazzino gli si avvicinò con fretta. Quando vide che si trattava di un appena quindicenne si agitò ulteriormente perché capì che non aveva quello che lui desiderava. Schiaffeggiò il ragazzo come se la colpa fosse sua, ma poi capì che quella era una ripicca dello spacciatore per i soldi non ancora avuti. Ma la vendetta era ancora più amara. Il ragazzino, tremante, gli consegnò delle pillole, un misto di varie droghe. Lui gliele strappò velocemente, ferendolo alle mani e andò via, inghiottendo le pasticche senza nemmeno aspettare di avere un po’ di acqua.
      Entrò nel locale accorgendosi dell’astio di tutti. Ignorò e raggiunse gli altri. Cominciò a suonare velocemente. Era chiaro. Le pasticche stavano cominciando a fare effetto. Avvertì dei dolori acuti dentro di sé, si gettò per terra. Il sassofono scivolò dal gradino che separava i musicisti dal pubblico, toccando i piedi di un cliente che, felice per la possibilità ricevuta di toccare quello strumento, non si preoccupò di quello che stava succedendo intorno. Lui sudava e perdeva sangue dalla bocca. Dopo pochi minuti era all’ospedale. Dopo pochi giorni, in galera.
      Con amarezza, riuscì ad alzarsi e a portarsi alla finestra per respirare un po’ d’aria. Ormai l’insegna del bar era spenta e lui poté  permettersi di restare lì per un bel po’ di tempo. Si stava avvicinando l’alba.
      Aspettava di morire, anche se si sentiva già morto da tempo. L’idea non gli piacque e allora, con molta difficoltà, avvicinò una sedia alla finestra e sollevò il sax da terra, come se desiderasse suonarlo, come se volesse dimostrare a sé stesso, ma forse di più agli altri, che poteva ancora farcela.
      Si sedette e portò lo strumento alla bocca. Era un sax tenore, per cui, essendo lungo e pesante, tentò di fermarlo trattenendolo con le gambe. Ma niente. Non un suono. Non una nota. Si sentì solo un gemito che, però, era il grido di disperazione del suo corpo, come se volesse dirgli: “che stai tentando di fare? Io non posso venirti dietro. Non ne ho la forza”. Si rese conto di quanto il suo dolore fosse più forte di ciò che gli suggeriva la mente.  
      Cambiò posizione del sax, tenendolo stretto tra le braccia, questa volta come fosse un bambino. Sorrise pensando al fatto che il suo corpo era, senza dubbio, invecchiato. Prima trattava quel sax come fosse una donna e lui ne fosse il compagno. Ora, come se fosse un neonato e lui ne fosse il nonno.
     Guardando quel “bambino” gli vennero in mente tutti gli articoli dei giornali che parlavano di lui. “Il più grande sassofonista di tutti i tempi”, “La sua musica è una preghiera a Dio”. E sorrise pensando che quella musica era  spesso il risultato di uno speedball, la combinazione di eroina e coca. Dopodiché, prendeva il suo strumento e nascevano le più belle note mai udite prima. Nella combinazione giusta, nel tono giusto, nell’espressione giusta.
     Inavvertitamente si ritrovò scaraventato nei ricordi delle sue prime dosi. Aveva tante cose da dire e sapeva che poteva farlo solo con la musica, con il jazz. Era importantissimo per lui esprimerle nella maniera più chiara, in modo che potessero diffondersi nell’aria, che potessero essere fotografate ovunque. Con il passare dei giorni, serata dopo serata, cominciò a sentire il bisogno di qualcosa che lo aiutasse in questo obiettivo. Le droghe gli permettevano di capire per primo le cose che desiderava esprimere, che desiderava tirare fuori, per poi farle vivere sul palco.
       I suoi occhi cominciarono a lacrimare ricordando i suoi fraseggi. Brevi ma caldi. Odiava quegli assoli lunghi e pieni di note. Era convinto che non dicessero tanto. Infatti, lui comunicava di più con poche note e con molti silenzi. Un po’ come dire “ti amo” ad una donna. Poche volte, ma guardarla spesso senza parlare. Se la ami davvero, gli occhi saranno capaci di dirlo ugualmente e lei capirà.
       Le lacrime cadevano lentamente sul sax, una dopo l’altra. Asciugandole si ritrovò a pensare al primo incontro con la cantante Carmen Mc Rae, a quante cose imparò da lei, il suo swing, la sua tonalità, il senso del tempo, la passione, la dinamicità. Si ricordò della volta che registrarono “Nature Boy”, senza provarla prima. Rammentò tutti complimenti che lei gli fece su quanto le piacesse il suo modo di ritardare o anticipare una frase, la sua capacità di capire il momento giusto per una scala cromatica, per una pausa, quelle salite e discese per semitoni alla ricerca della nota giusta per poi “parlare” utilizzandone la tonalità.
      Camminando all’indietro nella sua vita si accorse di non aver amato mai una donna, avute tante, ma amate mai. La sua sembrava una collezione di francobolli. Mille pagine con mille volti di donne. Ognuna di esse un valore, ma nessuna era un pezzo insostituibile, un pezzo raro, un pezzo unico. Eppure tutte sarebbero rimaste fino a quel giorno, come il suo sax. Tutte sembravano sopportare il suo carattere, il suo egocentrismo, il suo odio per la vita dicendo sempre che era un’ingiustizia. Più le trattava male e più lo amavano. Più le stavano vicino e più le mandava via da casa. Eppure lo idolatravano. Forse perché poi, quando suonava, equilibrava la mancanza di tutto il resto. E capì, improvvisamente, del perché ora, era solo, a quella  finestra e malgrado tutto, non ne era pentito.
      Un colpo di tosse lo riportò alla realtà. Alla realtà di un cancro all’ultimo stadio ai polmoni e al fegato. Pochi mesi di vita e ormai era già passato un anno da quando aveva sentito quelle parole. Ogni giorno che viveva era un regalo. Ma un regalo per vivere come? Per vivere cosa?
      Non aveva più fiato per suonare né tanto meno la voglia di farlo. La sua vita non esisteva più da tempo, ormai. E non si può improvvisare su qualcosa che non esiste. Per improvvisare devi avere qualcosa di cui parlare e lui non aveva niente. Nemmeno la droga, ormai, poteva inventargli una vita. E la sua, ormai, era una siringa vuota, un letto macchiato, un sax abbandonato e un’insegna a neon di un bar.
     Però, era così che voleva vivere. Ed era felice di essere riuscito a fare tutto ciò che desiderava, ad essere solo quello che realmente era. Il suono del passato che aveva fino a quel momento ricordato era la sua vita. L’unica che avrebbe mai voluto avere.

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articolo già pubblicato



3 commenti:

  1. Mi sembra che sono il primo a commentarti e allora:
    TANTISSIMI AUGURI di un buon proseguimento con questo bel blog e BENVENUTA FRA NOI BLOGGER:)))))))
    Innanzitutto ti metterò fra la mia barra dei preferiti, così appena scriverai un post io potrò vederlo dal mio blog.
    Con il tempo imparirai a gestirlo al meglio e vedrai, è tutt'altra cosa di facebook, un po' meno immediato( quindi più riflessivo) ma con la possibilità di scrivere quanto vuoi, in pace:)
    E' bel blog, interessanti gli argomenti, scritti molto bene( cavolo ma sei bravissima a scrivere. Infatti qui hai la possibilità di esprimerti con più naturalezza e le doti si vedono subito.
    Il jazz mi piace molto, ti seguirò anche qui e so che tu sei una vera esperta.
    Ciao e a presto, ancora complimenti!!!
    Lorenzo

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  2. Giuliano 18 maggio 2012
    Ciao Viv ha appena letto la storia di un uomo e di un sax, e non ti dico cosa mi sento dentro....non so come si fa ad essere un blogger ma imparerò, Lorenzo ha detto che sei bravissima a scrivere e sono d'accordo con lui, anche se lo sapevo Già e non te l'ho mai detto....ti rinnovo al mia ammirazione!
    Adoro la musica Jazz da sempre!
    Ciao a presto e complimenti!!

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    1. grazieeeeeeeeeeeeeeeee ..impara ad essere un blogger .. è fortissimo :-)

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