giovedì 17 maggio 2012

BILL EVANS



Cerchi il più grande pianista jazz? Si chiama Bill Evans e lo trovi tra una lacrima e un’altra. Bambino prodigio che vive la sua infanzia in compagnia del suo pianoforte, ascoltando i grandi musicisti convinto, come Stravinskij, che “i cattivi artisti prendono in prestito, quelli veri rubano”. Non esiste sua opera all’interno della quale non si evidenzi la sua grandezza e l’incontenibile necessità di esprimersi. Sarà per questa ragione che usa il pianoforte e la sua musica per come davvero dovrebbero essere usati, per comunicare con sé stessi, comprendendo da subito il “compito” del jazz. Il suo linguaggio stilistico è così spontaneo che alla fine diventa uno degli innovatori del pianojazz semplicemente trasferendo il suo più profondo io, la sua intimità sui tasti bianchi e neri, semplicemente mostrandosi per quello che è, senza pudore  senza chiedere aiuto a “trucchi” e strategie musicali.
Evans suona con i più grandi jazzisti americani, da Miles Davis a  Stan Getz, da John Coltrane ad Art Farmer, da Chet Baker a Gerry Mulligan, lasciando in ogni registrazione un’impronta assolutamente personale e delle improvvisazioni memorabili al punto che ancora oggi è per molti pianisti, soprattutto italiani, fonte di ispirazione e, come capita spesso con i grandi musicisti, vengono talmente idolatrati che si perde di vista quello che è il messaggio principale del jazz, quello di fare una musica che nasca da sé stessi. E così nasce una musica che non è più personale, non è più un tuo “discorso” ma una falsa copia dell’artista ammirato che “parla” attraverso la tua arte.
La capacità di Evans è anche quella di “mutare”, smussare alcuni suoi profili stilistici a seconda del musicista con il quale collabora, senza abbandonare mai il suo obiettivo originale. Ad esempio, nelle sue collaborazioni con Miles Davis, Evans mette in atto uno stile fondato su note semplici, accordi tranquilli, suonati con molta sensibilità perché capisce che il loro è un incontro di due genialità che rischia di far diventare il jazz qualcosa di estremamente freddo. In quest’occasione si percepiscono in Evans le influenze classiche, soprattutto quelle di Debussy, proprio perché cerca di essere molto dolce e poco articolato. Invece nel cd del 1980 “Bill Evans Trio”  (Marc Johnson contrabbasso e Joe La Barbera alla batteria) c’è una “Your Story” piena di desolazione e disperazione. Qui il pianista rivela la sua passione per l’autore russo Rachmaninoff sfoderando tutta la sua cultura classica, romantica e moderna e dando alla luce una struttura colma di pathos. Altro esempio, con il trio Evans, Scott La Faro, e Paul Motian, il pianoforte dialoga con sé stesso. Pur mostrando un assoluto rispetto per gli altri musicisti, lasciando loro estremo spazio per poter esprimersi, Evans sembra voler dimenticare tutto e parlare solo a sé stesso. La sua musica è soffice e non fa ricorso a ornamenti di nessun tipo. L’improvvisazione è matura, energica, caratterizzata dal suo stile basato su contrappunti. Resta comprensibile e piacevole e per questa ragione questo trio intraprende un viaggio lungo verso il successo. Ma, come spesso accade ai nostri “amici” jazzisti, il successo è accompagnato da problemi di droga. La musica diventa aggressiva, colma di vibrazioni diverse da quelle udite prima,  ma espressive come sempre e, se lo conosci bene, comprendi che però sta cercando di comunicare qualcosa di differente. È un discorso più elevato, più profondo. Diminuiscono le note singole e aumentano gli accordi che sono più pieni, più completi. Tutte le dita sono impegnate alla ricerca dei tasti giusti, come se cercasse l’aiuto da parte di più persone e aumentano le pause come se dicesse: “chi vuole starmi vicino deve farlo in silenzio”. Se è vero che “il jazz rappresenta la persona nella sua interezza, nella sua parte materiale e in quella spirituale” come dice il pianista Ralph Gleason, Evans è la rappresentazione del jazz in persona.
Meraviglioso è il “Waltz for Debbie” con il suo trio, soprattutto nella sua registrazione dal vivo nel 1961 al Village Vanguard di New York. Lo swing è caldo, morbido. Una dose di dolcezza, malinconia ed energia da avere in casa. Da comprare anche “The Bill Evans Album” per innamorarsi di lui e, per commuoversi, ascoltare “Two lonely people” nella quale esprime la sua difficoltà di un rapporto funzionante con le donne, lasciando una vera tristezza nel cuore.
 “Ho cercato di dire qualcosa nel contesto della mia musica. E ho cercato di imparare come dirlo per mezzo di un linguaggio musicale comprensibile, il cui senso sia sempre più profondo”. Evans è riuscito a penetrare dentro di sé, forse a volte stuprandosi, pur di dare un senso alla sua musica e alla sua vita e ci ha fatto capire quanto sia possibile comunicare anche semplicemente con la melodia, ci ha fatto comprendere quanto a volte le parole siano inutili. “Sono certo che molte cose che ho nel cuore non potrebbero essere spiegate con le parole. Le parole non darebbero lo stesso effetto”.

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articolo già pubblicato

http://www.youtube.com/watch?v=dH3GSrCmzC8

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