giovedì 17 maggio 2012

JOHN COLTRANE


“Essere un musicista è veramente qualcosa. È molto, molto profondo. La mia musica è l’espressione spirituale di quello che sono, la mia fede, la mia conoscenza, il mio essere”. Sassofonista tenore e soprano, John Coltrane è uno dei più grandi musicisti ricercatori nel jazz. E’ in cerca, in continuazione, della parte spirituale e religiosa di sé stesso e di tutto ciò che lo circonda per poterlo trasformare in musica. Comincia a suonare nelle orchestre di Dizzy Gillespie intorno agli anni ’50, per poi collaborare con Miles Davis e nel ’57 con Thelonious Monk. Inizialmente la caratteristica della sua tecnica consiste nello scomporre la base ritmica della battuta e nel basarsi sulle strutture superiori degli accordi sviluppandole ad una velocità tale da essere chiamato “Trane – perché suonava come un treno (Train)”. Questa suo modo di suonare viene denominato “Sheets of Sound”.
Con Miles Davis si può ricordare la registrazione di “Milestones” (1958) e “Kind of Blue” (1959) segnando l’inizio del Jazz Modale. Ma le sue incisioni più straordinarie sono “My favourite things” e “A love supreme”  registrate con il quartetto che forma nel 1960 e con il quale incide “The John Coltrane Quartet Plays” del 1965. Successivamente apporta delle modifiche alla sua tecnica che viene completata con l’inserimento di modulazioni alla terza maggiore, passando dallo “Sheets of sound” al “Giant Steps changes”, denominazione che darà anche il titolo ad un brano di sua creazione.
Coltrane fa una musica sicuramente all’avanguardia, molto tecnica ed energica, musica che trova un po’ di dolcezza e lirismo verso la fine della sua vita, quando comincia a star male per la sua dipendenza dalla droga.
Un bellissimo cd da ascoltare è “The Paris concert” nel quale si passa da una versione esclusivamente composta da contrappunti e note annunciate rapidamente di “Inchworm” ad una malinconica “Ev’ry time we say goodbye” dove rispetta la natura reale del brano, nato dalla genialità di Cole Porter. Altro cd da avere nella propria collezione è “A love supreme”, un cd che rappresenta appieno il suo jazz modale, la natura iniziale blues ma soprattutto si percepisce l’importanza nella sua vita della religione e della spiritualità, attraverso suoni dolci, malinconici e combinazioni che riuniscono tradizioni e popolazioni diverse. “A love supreme” è anche il nome di un libro scritto da Ashley Kahn. In questo libro, oltre alla storia di questo grande uomo, sia nella musica che nella sua vita, ci sono tante stupende foto che lo immortalano in vari momenti della sua esistenza e un’attenta analisi della sua musica. Una giusta citazione di Carlos Santana rende la giusta idea di quanto questo documento sia completo. “A Love Supreme è bellezza, eleganza e grazia. Sono le sensazioni che ho provato leggendo questo libro. Un’opera suprema”.
John Coltrane è un uomo molto religioso, un uomo che piange per le vittime giapponesi della seconda guerra mondiale, per i morti della bomba atomica ai quali dedica una sua creazione, assolutamente triste e viscerale “Peace On Earth”.
Quando scopre che il cancro lo sta divorando lentamente, decide di affrontare un viaggio. Non un viaggio in giro per il mondo allo scoperta di qualcosa che potesse suggerirgli il modo di suonare migliore, quello giusto per tutti, l’unico e solo. Ma un viaggio più difficile. Quello all’interno di sé stessi, quello che spaventa di più per quello che puoi scoprire, quello che ha bisogno di coraggio e pazienza. Le scoperte che riceverà, giorno dopo giorno da questa sua esperienza, saranno assolutamente percepibili nella sua musica che, ad un certo punto, ha suoni più dolci, più lunghi, più estesi. Anche i suoni cambiano, dando spazio a maggiori percussioni. Nel suo concerto a New York del 1966, oltre ai suoi fidati musicisti, chiama Omar Ali e Algie De Witt che arricchiscono la sua musica di quel sapore tutto africano  suonando strumenti come la bata, i tamburi e la conga, regalando quel sapore di spiritualità e di sacralità che Coltrane ricerca da sempre per il suo jazz. Ma la maggiore rappresentanza dello spazio che ha la religione nella sua vita
è l’opera del 1965 “Ascension”. L’ultima sua incisione è “Expression”, un album che riunisce poesia e danza. E’ un cd che dà un senso di leggerezza, come se stesse estirpandosi mentalmente, il cancro che lo porta,  da lì a poco, alla morte e l’ascoltatore avverte inevitabilmente lo stesso senso di serenità e di  libertà. Il suo jazz è la sua memoria, il suo album fotografico.
Muore a 44 anni amato dal pubblico e da tanti suoi colleghi. Albert Ayler e Ornette Coleman decidono di suonare alla cerimonia funebre, alla partenza del  suo ultimo viaggio, quello senza ritorno.

viviinjazz

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