giovedì 17 maggio 2012

I CONFINI DEL JAZZ

      Se partecipando al  gioco a premi “Il milionario” e Gerry Scotti mi dovesse chiedere se esiste il Jazz oggi, risponderei “No”, con estrema sicurezza e accenderei.
      Facciamo un passo indietro. Molto lungo.
      Grattacieli di New York, strade illuminate dalle centinaia di insegne dei jazz clubs, donne eleganti e vanitose sottobraccio a uomini altrettanto avvenenti, con capelli impomatati, lucidi come le penne di un corvo. Il Cotton Club, il Birdland,  il Savoy Ballroom, pieni di gente e di fumo, urla e schiamazzi di un pubblico entusiasta della musica. In un angolo, un piccolo spazio riservato al gruppo di scena in quella sera. Stretti, sul palchetto, i musicisti. A volte esaltati, a volte depressi, ma sempre presenti con la loro arte. La luce di una lampada sul soffitto si riflette sul piatto della batteria, diffondendosi sulla platea. La voce di un sax dorato riempie di adrenalina l’anima delle donne che si eccitano osservando Charlie Parker, Bud Powell, Thelonious Monk, Chet Baker, mentre gli uomini, quasi succubi della bellezza delle proprie donne, versano loro l’ennesimo bicchiere di gin.
     Il Jazz. Questa magia, questa espressione musicale ibrida, imbastardita dai contesti sociali, politici e culturali dei bianchi e dei neri dell’America, e più in là con i tempi, dalle cornici storiche dei portoricani, degli ebrei, degli italiani e di decine di etnie diverse. La sua grandezza consiste nell’aver unito tante popolazioni e più generazioni in un’unica pulsazione ritmica.
      Il jazz si basa quasi esclusivamente sull’improvvisazione, sul fatto di suonare il tema principale per poi lasciare spazio alla libertà e alla fantasia per dire qualcosa di personale. La comunicazione si esplica attraverso rivolti armonici, attraverso cambiamenti ritmici, mutazioni di schemi. Comincia ad entrare in Europa già intorno agli anni ’30, ma è dopo la seconda guerra mondiale che esplode la voglia di conoscerlo maggiormente.
     Il Jazz viene visto, quasi da sempre, come una piaga sociale e i suoi musicisti sono considerati dei matti, delle bestie, dei drogati. Questo odio e questa repulsione è dovuta, quasi unicamente, al fatto che il Jazz ha radici nelle popolazioni di colore e che non la si considera un’arte ma una musica primitiva. Per questo Hitler evita che venga suonato o ascoltato. Basti pensare che i tedeschi si divertono a bruciare i pianoforti e tutte le partiture musicali, spaccano in mille pezzi gli strumenti a fiato e minacciano di morte anche gli accordatori se dovessero continuare a fare il loro lavoro per qualche musicista che possiede anche un solo disco di Benny Goodman. Ma qualcuno resiste, anche se per poco tempo. Ad esempio i “Ghetto Swingers”, amatori del Jazz che, una volta scoperti, finiscono per suonare nella camera a gas di Auschwitz. E questa visione distorta del jazz si trascina anche in Italia nel regime fascista. Il Jazz è proibito. Chi lo ascolta deve vergognarsi, perché non ha rispetto nei confronti del Fascismo e di chi cerca di portare ordine e pulizia nella Nazione. E già, perché significa qualcosa di completamente opposto alla pulizia, è considerato frastuono, è “musica da ballo depravata, essendo (a riportare degli scritti del tempo) una musica che nasce da un incrocio di due brutte razze, i negri africani e gli ebrei”.
     Sul Jazz vengono pubblicati libri con l’obiettivo di denigrarlo. Un esempio è “Jazz Band” di Anton Giulio Bragaglia che vuole conquistarsi favori dal regime fascista e che, in questo modo, è sicuro di ottenere. Il compositore Pietro Mascagni lo definisce perfino la musica dell’oppio e della cocaina. Ma poi c’è anche chi tenta di sostenerlo. Lo stesso Mussolini lo considera musica popolare e si diverte a collezionare i dischi migliori creandosi  una ricca e personale discografia. E poi, una serie di articoli giornalistici positivi sulla bellezza dello swing, sull’allegria che sa trasmettere e sulla simpatia di alcuni brani scritti da Kramer, dettati da un ritmo tipicamente scandito in chiave jazzistica.
     Ma dopo la seconda guerra mondiale l’Italia, come tanti altri Paesi europei, comincia ad americanizzarsi e, di conseguenza, tante cose della Grande Mela, tra cui anche la musica, sono “accettate” e accolte con piacere. Ma questa generosità dura molto poco. In effetti, l’entusiasmo, l’interesse verso questa “corrente”musicale trova uno spazio molto ridotto e, da qui, comincia ad essere classificato come musica per intellettuali e per un pubblico snobista. Questa considerazione non fa altro che peggiorare la condizione per i musicisti, rendendo loro sempre più difficili e inattuabili i concerti e le esibizioni. Le case discografiche italiane spingono con forza la produzione di dischi unicamente italiani, cantati solo da italiani e solo in lingua italiana, respingendo qualsiasi tipo di tentativo musicale diverso dalla canzone napoletana e dalle canzoni romantiche dalla rima facile e scontata.  E da quel preciso istante, il Jazz si accolla questa etichetta di musica complicata, difficile, che lo raffigura come qualcosa di lontano dalla nostra cultura, pertanto non approvabile.
      Le cose con gli anni sono un po’ cambiate. Grazie all’importazione dall’America di registrazioni e di materiale musicale e alla facilità di raggiungere Paesi lontani in poco tempo e senza grossi problemi, si è reso possibile una diffusione ed una sua maggiore conoscenza. Ma il risultato è estremamente limitato. La massa popolare è davvero restìa, tutt’oggi, al porsi in maniera accogliente nei suoi confronti, restando vincolato alla canzonetta italiana, chiudendosi a guscio verso qualcosa di sconosciuto anche se, senza dubbio, culturalmente più elevato.
      Per rispondere alla domanda se oggi il Jazz esista ancora, dobbiamo avere la certezza di sapere cosa sia. E’ solo una genere musicale? E’ solo la capacità di suonare uno strumento applicando delle particolari scale blues e degli accorgimenti più complessi?
     Assolutamente no! È qualcosa di più del fare musica. È uno stile di vita. E c’è sicuramente qualcosa da imparare dalla biografia di qualsiasi jazzista. Un musicista che “decide” di vivere in Jazz, sa che non sarà facile, sa che tutto intorno a sé risulterà più complicato e che la sua vita sarà differente da tutte quelle che gli girano intorno. Ma sa anche che non potrà essere diversamente. Sa che è inevitabile, perché un vero Jazzista, un purosangue del Jazz non può essere nessun altro, nemmeno se lo volesse. È stampato nel sangue, nelle vene che la sua vita dev’essere vissuta così. È stato sorteggiato nella grande sfera nelle mani di Dio. È lui il fortunato a dover scendere nella terra ed essere “Jazz”. Forse è un compito difficile e lui lo sa. Per questo dovrà essere forte, a volte prepotente, spesso cattivo perché si troverà tutta la gente contro, gente ipocrita che la sera lo andrà ad applaudire e ballerà con la sua musica, si innamorerà con le sue note e sognerà di poter trasgredire almeno una sola volta nella vita facendo sesso con lui, ma quando quelle note termineranno, il musicista si ritroverà solo, deriso perché nero, perché drogato, perché jazzista. È come essere un fiore in una oasi del deserto, uno scoglio nell’oceano, un piccolo sprazzo di nuvola in un cielo eternamente azzurro. Qualcosa di raro. Qualcosa di unico.
      Ogni nota che esce dal proprio strumento, dalla propria voce è un sentimento, un lamento di dolore, un grido di gioia, un sospiro di speranza. Mai, assolutamente mai, una nota è per caso. Una scala cromatica è una cascata di preghiere e ci può essere disperazione o utopia. Il suono può essere caldo per la passione o freddo per la rassegnazione. L’improvvisazione può avere tante note per esprimere il bisogno di parlare o poche per esprimere esattamente l’opposto. Ma in ogni caso, per ogni espressione, per ogni pausa c’è sempre una spiegazione. I musicisti veri hanno suonato solo per essere sé stessi. Oggi non è così.
     Innanzitutto oggi si decide di fare Jazz e già in questo c’è un errore di fondo. È normale che chi “decide” di esprimersi in questa chiave, ha una notevole passione per questa musica e per chi è riuscito ad essere un gigante e ad entrare nella storia. Ma non è la stessa cosa. Non basta. Bisogna essere nati e cresciuti in quel contesto. Non basta comprare un sax per essere Parker o lasciare svolazzare le mani sul pianoforte per diventare un Bill Evans. E non saranno anni di studio e anni di ascolto di dischi e concerti su dvd ad aiutare nell’impresa.
     Non è difficile diventare jazzista. È impossibile. La qualità non manca. La preparazione non manca. La tecnica non manca. Quello che manca è quel piccolo ma insostituibile pezzo di puzzle che rende un sassofonista Stan Getz o una cantante Billie Holiday.
      Il fatto che un musicista di Jazz oggi non accetta di suonare se non viene ben pagato, lascia comprendere quanto ci sia di sbagliato nella concezione. Chet Baker o Django suonavano per poco e la maggior parte delle volte per potersi permettere una dose, ma non c’era da parte loro il pensiero di una casa di lusso in riva al mare o la speranza di comprarsi la nuova auto della Ford. E suonavano, suonavano sempre. In qualsiasi posto, in qualsiasi pattume di locale, pur di sentirsi vivi. È l’unica loro occupazione. L’unico pensiero.
      Il Jazz nasce come espressione di libertà, la voglia di sentirsi liberi e non dipendere da nessuno, anche se questo significava vivere nella povertà, nello squallore di una stanza di trenta metri quadri, con un solo letto e solo whisky in frigo. E se oggi si pretende di fare Jazz, gridando ai quattro venti che lo si desidera per sentirsi liberi, bisognerebbe essere coerenti fino in fondo, rispettando la natura del termine. Per cui, dipendere dalla scelta di un locale per esibirsi, dalla paga della serata, dalla possibilità di avere una buona amplificazione e un pianoforte accordato all’ultimo momento non è certo l’espressione esatta di libertà. È istinto. Irrazionalità. Passionalità. Improvvisazione. Estemporaneità. Sia nella vita che nelle esibizioni. L’esibizione. La magia di alcuni minuti che ti dirigono verso il sublime stato di piacere, con l’adrenalinico suono di Bird o la grazia di Chet Baker.
      Si improvvisa, ogni decisione della nota successiva è strettamente personale. Tutto è così spontaneo, per nulla studiato o programmato.
      Oggi? Note studiate a tavolino, pagine e pagine di scarabocchi e di pallini neri sparsi su pentagrammi, alla ricerca di qualcosa che lasci perplesso, magari che non sia piacevole da sentire, ma che meravigli. È un Jazz militaresco.
      No. Il Jazz si è fermato molti anni fa e tutto quello che è venuto dopo è una speranza di assomigliare, di avvicinarsi, di diventare uno di loro, uno dei grandi, uno di questi “bastardi” che in passato abbiamo tanto snobbato e che oggi vorremmo essere, per pura decisione del destino, quasi fosse un costo da pagare per il nostro schifoso razzismo.
      
       Una conseguenza della multirazzialità verso la quale ci dirigiamo ha innescato e originato un allargamento degli stili, denominandoli Jazz moderno, free Jazz, fusion, acid Jazz e altri, ma siamo lontani anni luce da quello che è realmente il Jazz.
       L’incontro di varie razze, di differenti etnie è, per certi versi, musicalmente e socialmente un fenomeno positivo. Ma è il modo di concepire e di suonare il Jazz che  cambia profondamente e rende impossibile pensare di poter affermare il contrario.
       Con queste nuove influenze il Jazz perde la sua integrità, la sua autenticità, anche se le nuove forme musicali risultano, comunque, mature e stilisticamente complesse.
        Miles Davis è uno dei tanti esempi di musicista che comincia ad allargare le sue conoscenze spingendosi verso un linguaggio più moderno, più tecnico, aggiungendo alla sua musica accenti elettronici, mutando completamente la sua sonorità, viaggiando tra diversi stili musicali.
        La sua arte si apre verso un movimento più funky, piano piano si avvicina al rock per arrivare ad un’espressione progressive. La sua linea diventa atonale e, esteticamente, freddo.
       Tutto questo avviene intorno agli anni ’60-’70 e, improvvisamente, i musicisti sbocciano ad una velocità inaudita. Si perde di vista completamente la musica dei “maestri”, la strada originaria e si svincola verso la direzione “free”, successivamente verso il “Jazz Rock”, per poi arrivare alla “fusion”. I rappresentanti di queste tendenze sono assolutamente preparati. Cecil Taylor, l’ultimo Hancock, Ornette Coleman, Zawinul e i Weather Report.
       Il “Free Jazz” è, sicuramente, la corrente alla quale aderiscono in tanti. Non esiste più un ritmo da seguire. Non c’è più una sola identità. Si clicca il tasto “delete” sulla parola “Armonia”. Tutto diventa estremamente “libero”, disordinatamente libero.
       I più importanti fenomeni del Free Jazz sono Ornette Coleman e John Coltrane. La particolarità di questo stile è rappresentato dall’approfondimento degli elementi modali che lascia meno vincolati strutturalmente. Occorre essere spregiudicati, eccentrici con una capacità di sviluppare temi forti ed energici. Le idee diventano rapide, fluttuanti, inarrestabili. Non è facile da eseguire, né tanto meno da ascoltare. Bisogna lasciarsi coinvolgere in questo vortice di capriole e di peripezie e, soprattutto, cercarci dentro qualcosa che riesca ad emozionare.
       Il passo consecutivo è segnato da Miles Davis che, dopo una lunga pausa dovuta a problemi di droga  e depressione, torna a soffiare nella sua tromba palesando un forte rancore verso la vita, attraverso un suono crudele e freddo. Si scaglia verso tutte le contaminazioni del momento, esibendosi perfino in cover di Prince e di altri cantanti rock.
Il Rock progressive è un fenomeno musicale tipicamente europeo, maturo, forte,poderoso. Essenziale il suono delle tastiere e dei sintetizzatori e i  tempi diventano rock – latini. Il cammino continua arrivando alla “Fusion” rappresentata, maggiormente, da Pat Metheny
       L’impressione che si ha è quella di non trovarsi bene all’interno di un flusso musicale, di non riuscire a costruirsi una propria dimensione e un cambiamento si sussegue all’altro. Velocemente. L’evoluzione corre e, a volte, non si capisce dove vuole arrivare rendendo complesso il poter segnare dei confini ben specifici tra uno stile e l’altro.
 Fatto stà che questa metamorfosi continua, questo treno express che corre sulle rotaie della musica, arriva anche in Europa e in Italia. Anche qui i musicisti sono dei grandi cultori del Jazz, ma allargano la loro conoscenza ad altro, procreando delle creature musicali dalla radice certamente jazzistica, ma con un innesto di qualche altro seme stilistico. La musica diventa arte nella genialità di Garbarek o, in Italia, dei pianisti Pieranunzi e Sellani che, dimostrano anche di avere una vasta preparazione classica.
        Ma più si cammina con i tempi, più i giovani hanno la possibilità di studiare. E forse, paradossalmente, è questo il vero problema. Oggi c’è un’enormità di materiale, di dischi da ascoltare, di partiture da leggere, di dvd da visionare ai quali si strappa anche lo stile della postura fisica del musicista al quale si vuole assomigliare. Quanti trombettisti, stranamente, enunciano qualcosa con la tromba, chinandosi su sé stessi, rivolgendo lo sguardo in basso come Chet Baker? Tutto questo è alquanto triste.
         E la genialità, l’originalità si dissolve in un no nulla. E cominciano a girare nei locali tanti piccolissimi Bird, tanti Mingus, tanti Getz, tante Fitzgerald, che pensano di gridare nei loro strumenti qualcosa del tipo “quanto sono bravo!” e invece, quello che il messaggio che arriva è più sovente: “il Jazz è morto”. Non risulta esserci un nuovo Charlie Parker e non risulta che nessuno possa diventarlo con il tempo. È come se un Dio avesse dato il compito di far conoscere la bellezza della musica solo ad alcune persone, e quelle persone sono già vissute tutte.
         La prima cosa sbagliata in Italia è la presunzione delle varie scuole di musica di riuscire insegnare Jazz e la cosa avvilente è che ad affermare questo siano coloro che si reputano jazzisti e che dovrebbero essere, invece, i primi a diffondere il pensiero che il Jazz non si può insegnare, di conseguenza, non si può imparare. È come se si pretendesse di insegnare ad un architetto come arredare una casa, appiattendo la sua creatività e la sua fantasia.  Il Jazz non è un testo universitario che si può studiare a memoria e passi l’esame. È qualcosa che o vive dentro di te o non ti crescerà mai. La creatività non la trovi nelle scuole,  neanche sui libri, tanto meno nelle parole di qualche insegnante, fosse anche il migliore musicista vivente. È  irripetibile. Muore nello stesso momento in cui nasce. Non può essere fermato, né circondato e vive solo nel momento in cui il musicista gli dà la spinta per uscire fuori. Ma non puoi assimilarlo attraverso queste scuole che ingannano con messaggi e parole forti come “perfezionamento jazzistico” e “impostazione”. È individuale, è  l’espressione animale che vive dentro di noi.
       Gli insegnanti ti propongono di seguirli in qualche jam sessions, ti scrivono sulla lavagna le principali scale, ti fanno ascoltare delle improvvisazioni famose e, dopo averle eseguite con te alla perfezione e quindi, dopo averti strappato fiducia dimostrandoti di essere stato bravo nel clonare quell’improvvisazione, ti spediscono con un attestato in giro per l’Italia. gli insegnamenti si basano solo ed esclusivamente sulla tecnica (perché l’emozione e la spontaneità d’animo non si può impartire a nessuno), per cui, al termine del corso, si hanno delle lacune grandi come bocche di vulcani sui repertori musicali, sulle esistenze di alcuni jazzisti, toccando sempre i più geniali, e quel che è peggio, non si conosce la loro vita. Leggere insieme una biografia e commentarla, risulterebbe più giusto. Molti conoscono Bird, ma pochi sanno come trascorre le giornate. Può sembrare inutile ma, invece, così si scoprirebbe la fonte di tutta quella follia capace di tirar fuori una musica indimenticabile. Intanto tu hai in mano questo foglio dallo stesso valore di un biglietto dell’autobus scaduto, e  ingenuo o forse troppo ambizioso ed egocentrico per accorgertene, giri  per le strade con la convinzione di essere arrivato. Il fatto stesso che pensi di aver imparato a fare Jazz, è la dimostrazione chiara e netta che non lo imparerai mai.
       
      Ogni anno uno dei pochi jazzisti veri ci abbandona, uno dei pochi giganti ancora vivi ci lascia nella malinconia di quella Manhattan, con quei locali pieni di fumo, con gente ubriaca di gin e jazz. E a noi non resta che tornare da loro guardando per l’ennesima volta il film di Clint Eastwood “Bird” o inserire un cd, brutalmente masterizzato al punto da cancellarne ogni straccio di vita da quello che poteva essere in origine, abbassare un po’ le luci e sognare con il sottofondo di “Stella By Starlight”.
      
     In Italia è a partire dagli anni ’80 che si apre una nuova ricerca, una nuova fase in continuo svolgimento affinché il Jazz italiano, possa dimostrare, invano, che nulla ha da invidiare a quello americano e europeo. Ebbene si! Perché gli italiani hanno sempre voluto, testardamente, non essere i “fratelli minori”, i cosiddetti “amatori del Jazz” ma essere “Jazzisti” nel vero senso del termine. Questo inevitabile dilemma, ha spinto i musicisti nella spasmodica gara verso varie tendenze, verso nuovi linguaggi che avrebbero dovuto pareggiarli con gli americani.
      Non c’è che dire. Il grande campo di fiori del Jazz italiano è pieno di grande talento, di vera padronanza della tecnica e del proprio strumento, è un pozzo di idee e di effetti brillanti. Purtroppo questa martellante esasperazione e questo testardo tentativo di appartenere a qualcosa che la storia e il destino non hanno voluto ci appartenesse, ha creato mostri formati di briciole, uno sull’altra, di dettagli, di idee, di proposte, di colori già sentiti e di appartenenza ai grandi giganti. Una gestazione, durata tanti anni, che ha messo al mondo, alla fine, una generazione di musicisti dal mancato linguaggio e stile personale. È inevitabile che tra cent’anni, chi in vita parlerà di Jazz, di quello di  oggi e dei dintorni, facendo rientrare nei suoi discorsi anche la storia geografica e temporale di questa musica, citerà tanti musicisti, anche italiani magari, ma si soffermerà a parlare di altri, altri che sono sempre gli stessi. È come se, paradossalmente, il futuro del Jazz fosse il suo stesso passato. Si potrà comprare un cd di un pianista francese di oggi o di un contrabbassista italiano per curiosità, per allargare i propri orizzonti, per ascoltare certamente buona musica, ma se si vorrà ricreare in casa un’atmosfera jazz reale, se si vorrà emozionarsi e commuoversi nella coerenza della filosofia jazzistica, sarà d’obbligo andare alla lettera G della scaffalatura di un negozio di musica e saltare Roberto Gatto e prendere tra le mani un cd di Stan Getz, o andare alla B e non accorgersi della scritta Flavio Boltro perché già in cerca di Chet Baker.
     Ogni musicista contemporaneo italiano è incapace di aprirsi una propria strada, di percorrerla senza chiedere “informazioni” a qualcuno che l’ha già percorsa e, da quel preciso istante, il suo cammino sarà automaticamente una copia, un modo già visto di camminare lungo quel sentiero. È come se sulla neve si camminasse seguendo le orme di qualcuno che ci ha preceduto, senza le quali, saremmo perduti.
      Il suo suono, il suo linguaggio, la sua tecnica sono da rispettare. Qualcuno seguirà la tradizione americana, qualcuno si dedicherà a visioni sperimentali, un altro ancora intreccerà il Jazz ad altre influenze mediterranee. Ma ci sarà sempre quell’intenditore che ha un’ampia conoscenza biografica e discografica dei giganti e che sarà sempre pronto a riconoscere qualcuno e a dire: “questa frase è di…”, “ questo fraseggio è preso di pari passo da….”.
      Per la loro grande preparazione tecnica gli italiani, sempre nei magici anni ’70-’80, accompagneranno i geni americani che, affamati di droga e di soldi, riconosceranno in qualcuno di loro quel possibile e ipotetico pianista o batterista che possa fornirgli una serata. Il risultato sarà splendido, ma lo stesso intenditore di prima noterà nelle esibizioni un imbarazzo, un quasi impercettibile vuoto misto di disagio e consapevolezza di essere fuori luogo.
      Molti dei musicisti italiani sono convinti, (non potrebbe essere diversamente) che il Jazz sia diventato, finalmente, anche nostro, che finalmente dopo tanti anni, anche l’Italia può vantare dei grandi jazzisti. Continuano ad affermare giustamente che il Jazz è il figlio bastardo della musica, bastardo perché nato da un illimitato numero di stili e di linguaggi musicali diversi e che, di conseguenza, anche quello nostro, di oggi, può e deve essere considerato tale, perché si è arrivati ad esso attraverso un continuo evolversi della stessa radice di tanti tanti anni fa che ci riporta a Bird e a Duke. Esatto in parte. Il Jazz è sempre stato una continua “invadenza” di vari percorsi musicali, ma il tutto si è svolto sempre nel modo più naturale possibile. Oggi, invece, i musicisti che affermano questo sono gli stessi che vanno alla ricerca, si recano nei posti e nelle discografie di tutto il mondo per poter essere, in qualche modo, aiutati a creare qualcosa di nuovo. E l’improvvisazione dov’è? L’improvvisazione non è solo quel concetto di prendere un tema e variarlo, secondo le proprie conoscenze tecniche e culturali. L’improvvisazione è parlare, discutere, arrabbiarsi, piangere, ridere, distruggersi per un dolore, urlare per la gioia, usando la propria anima e non ricorrendo a nient’altro. Chet Baker, quando suona “My funny Valentine”, non pensa: “ora, riprendo la frase di …”, oppure “qui ci metto quell’inclinazione musicale di quel musicista afro …”. Lui suona e basta. Si lascia vibrare nell’aria e la magia è fatta. E così Bird, così Getz e così tutti i veri.
          I musicisti, oggi, partono, vanno nei posti lontani, ascoltano, rubano, si deliziano, registrano e tornano a casa. Buttano giù una partitura. La eseguono e la rieseguono mille volte fino a quando, per qualche strana ragione del tutto personale, raggiunge la “perfezione” e tutto questo viene chiamato Jazz. E no! Non è questo.
     Ci sarà una ragione nelle parole di Michel Petrucciani: “Ci sono parecchi musicisti molto ben informati. I giovani hanno un bagaglio incredibile grazie alla partiture, ai laboratori, ai dischi. Ma l’istruzione rapida non sostituisce quella della vita, profonda, intensa. Sono molto felice di aver fatto parte dell’ultima generazione che sia stata messa a confronto con una vita dura. Ho mangiato carne arrabbiata: tanto meglio. Quando si viene allevati nella bambagia è bello, ma la musica che ne viene fuori è asettica, è sesso senza odore, senza saliva. (…) Non c’è niente di nuovo in quello che sento oggi, di profondo, in nessuna parte del mondo. Niente mi colpisce. (da un’intervista rilasciata al mensile “Musica Jazz”).
     Bisogna aver sofferto, bisogna averlo vissuto il Jazz per poterlo fare, per poterlo essere. E questo è un concetto che, soprattutto i musicisti italiani, rifiutano. “Perché dobbiamo essere quelli della musica drogata, quelli tristi, quelli depressi? Forse perché è così che nasce il Jazz, ragazzi; forse perché molte genialità della storia musicale hanno avuto bisogno realmente, della droga per creare; forse perché bisognava davvero soffrire e avere la testa tra le nuvole e un braccio teso con una siringa piantata nelle vene. Questo dilemma non si scioglierà mai. Non sapremo quanto in realtà sia stretto il rapporto tra stupefacenti, depressione e creatività. Kay Redfield Jamison tenta di dare una spiegazione con il libro “Toccato dal fuoco”. Per adesso noi possiamo solo ammettere che, dopo questo vortice di fenomeni fatti di note e di droga, la creatività e l’istinto musicale è morto completamente.  
      Se Chet Baker avesse avuto una famiglia felice, soldi a volontà e un ambiente psicologico sano, forse avrebbe dato origine a “Papaveri e papere” e non a quella serie intoccabile di registrazioni, di esibizioni, di improvvisazioni con le quali oggi, chiunque le ascolta, riesce a raggiungere un orgasmo mentale e una sensazione emotiva idilliaca, forte, energica e malinconica allo stesso tempo, che apre le porte di una stanza che non siamo capaci di raggiungere in nessun altro modo.
       Stan Getz proprio ammette, in una lettera spedita al “Down Beat”, che senza droga non riuscirebbe ad essere così creativo, così capace di dire tutto ciò che voleva dire.
        Quindi perché dobbiamo rinnegare la natura di questa musica? Perché ci dobbiamo vergognare di affermare che il jazz nasce in un contesto difficile, da un misto di cose complicate. I musicisti contemporanei, pensano che queste “cose complicate”, siano strettamente legati alla tecnica, alle scale, alla velocità, agli acuti, ai gravi, alla sfera celebrale. Le cose complicate sono altre. La difficoltà di vivere nella povertà più assoluta, nello scantinato con topi e scarafaggi, con un frigo arrugginito, con una madre violenta o costretta a prostituirsi, un padre assente. Per non parlare delle difficoltà sociali dovute alla guerra, al fatto di non essere accettati se neri o di non poter essere considerati bravi jazzisti se bianchi, la mafia, la polizia sempre alle calcagna per coglierti con la droga in tasca. Le cose complicate sono altre. E la musica ne racconta la storia.
     Ascoltando la musica del Duca, di Bill Evans, di Cole Porter posso riuscire ad avere una idea del periodo storico, delle loro emozioni, delle difficoltà, di quando sono tristi o allegri. Se ascolto un cd di qualche musicista italiano, mi assale solo una valanga di note e di concetti già uditi che non riescono ad aprire quella porta di cui ho parlato, e non credo che tra cent’anni, qualcuno potrà capire, attraverso lo stesso cd, la storia civile, sociale e politica che stiamo vivendo oggi.
       In questi fiorenti clubs che nascono uno dietro l’altro si ascoltano le loro esibizioni. Ed è avvilente e ripugnante il momento in cui si scopre che quello che hai sentito oggi, lo hai sentito in quell’altro locale, ieri dove di diverso c’era solo la cameriera e il menù.
       Improvvisazioni fatte e rifatte, certe, matematiche, sicure. Jazz? Non credo proprio. Gruppi di musicisti che si vestono con berretto e farfallino e si spacciano per “la piccola band di Dixieland”. Se voglio sentire del vero dixieland, ascolto Bix Beiderbecke.  Un sassofonista che riporta l’esatta improvvisazione di “Body and Soul” di Stan Getz e alla fine dice: “Avete appena ascoltato una mia versione dello standard…”. Donne che riportano esatte improvvisazioni di Ella Fitzgerald all’interno dei loro “concerti” e che sono convinte, anch’esse che, un ululato dopo l’altro e riuscire a prendere le note alte sia Jazz.
       E che dire di tutti questi piccoli re dello swing che stanno nascendo, improvvisamente, caso strano dopo la morte di Frank Sinatra. Prima dov’erano? Aspettavano forse il momento giusto? Atteggiamenti uguali, accenti sugli accenti dal “The Voice” già udite nelle sue migliaia di versioni musicali. Non basta indossare uno smoking e affittare una big band che, riproduce esattamente gli arrangiamenti originali, per diventare il re dello swing. Se Sinatra fosse vivo, Bublè e i suoi apostoli andrebbero a lavorare in banca.
       La politica sta facendo di tutto per salvarci dalla pirateria. E da questo, chi ci salva? Chi ci salverà da coloro che fanno Jazz eliminandone, uccidendone l’estemporaneità, la bellezza improvvisativa, l’umiltà e l’animale natura diabolica e viscerale. Chi ci salverà da questi produttori di musica che non ha nulla a che fare con il jazz, da questi falsi profeti che vogliono diffondere qualcosa di troppo grande per loro, vogliono far conoscere il Jazz ma lo fanno nella maniera più sbagliata e contradditoria, distruggendone la vita straordinaria che rappresenta nella storia della musica. Chi ci salverà da tutte queste minuscole case discografiche che permettono la nascita di tantissimi dischi sotto l’etichetta Jazz, della quale un buon 90 per cento potrebbero essere eliminati. È anche dovuto a questo la confusione dei commessi dei negozi di dischi. Siccome si dice che “tutto quello che non si capisce è jazz”, molti cd vanno a finire in quel comparto. E il nostro intenditore, (magari americano), recandosi in quel posto e lasciando passare il cd sotto la parte magnetica affinché possa ascoltarlo, dopo solo qualche nota si chiederà: “ma in che reparto mi trovo? Oh My God, what a mess!”.

    
    E il Jazz americano contemporaneo è forse un passo avanti. In qualche clubs nascosto, in qualche cantina si può trovare quel sax all’angolo del bar che attende di essere maneggiato con cura o stuprato dal suo Dio. Ma anche lì il mondo commerciale, le case discografiche, l’apertura  a tutti i mondi civili, ha aperto le porte a tanti stili che lo hanno contaminato troppo. Bisogna recarsi nelle stradine strette e buie, magari poco eleganti ma ricche di vita per poter rivivere con malinconia le emozioni che ci può dare un disco di Mulligan.
     Ma per il resto, c’è una tale confusione di suoni, di effetti creati con sintetizzatori e attrezzature computerizzate di alto livello e molto sofisticate, di strumenti inventati e ricavati da una eccessiva fantasia o forse, paradossalmente, dalla mancanza totale della stessa, dall’assenza di abilità nel creare qualcosa di bello adagiando le mani su un “normalissimo” pianoforte o soffiando dentro un flicorno.



-          “Accendiamo?”
-          “Si, Gerry! Accendiamo. Sono sicura che la risposta è no. Il jazz non esiste più”.
L’applauso del pubblico e il sorriso del presentatore mi fanno capire che ho vinto.
-          “Cosa farai con questa cifra?”
-          “Comprerò un appartamento, qualcosa la metterò da parte e il resto lo spenderò in cd, così potrò far rivivere il jazz. almeno nella mia casa. D’altronde è questo quello che loro vogliono. Continuare a vivere attraverso la loro arte.

     Non dispiacetevi del fatto che il jazz non esiste più. Abbiamo tante incisioni, tante registrazioni pronte ad arricchire la nostra cultura e la nostra anima. La nostra intera vita non basterebbe per ascoltarle tutte. Abbiamo un patrimonio culturale di immense dimensioni. Dobbiamo solo aprire le nostre menti e il nostro cuore e il jazz continuerà a respirare.
      Keith Jarrett riassuma il tutto con poche parole: “nel jazz di oggi c’è solo tecnologia. C’è aridità e nessuno parla di temi profondi. I gusti cambiano con rapidità e le parole corrono troppo veloci. Invece, per i vecchi maestri del jazz la vita era molto dura. Esprimevano le emozioni, i percorsi della loro coscienza in maniera maturale, ma anche attraverso l’uso di alcool e droghe. C’era tutta la loro vita, anche rovinosa, nella musica. Rischiavano tutto per esprimersi completamente, inventando in pochi minuti una musica straordinaria. I giovani musicisti non capiscono questo insegnamento, credono che esprimersi in un certo stile o in sedici stili diversi, li faccia suonare meglio. Invece di scavare nel profondo, restano in superficie. Il loro diventa uno sterile esercizio, senza rischi e senza sofferenza”.
    

     
     
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