giovedì 17 maggio 2012

BILLIE HOLIDAY


Billie Holiday è senz’altro l’espressione della solitudine in musica. È la voce più triste e più malinconica che il jazz abbia conosciuto. Nasce nel 1915, abbandonata da subito dal padre, resta solo con la madre molto giovane sicuramente non matura per quel ruolo. La violentano a dieci anni e, come se la colpa fosse sua, viene chiusa in un istituto di suore. Divide la sua camera con una bambina che viene trovata morta dopo pochi giorni. Quando esce dall’istituto, la nonna decide di farla vivere con sé, ma sempre più inseguita dalla sfortuna e dalla crudeltà della vita, una mattina Billie si trova accanto la nonna morta. Comincia presto ad avere problemi economici che la spingono a prostituirsi e problemi psicologici che la conducono a bere e a drogarsi. Come si può pensare di vivere una vita diversa da quella che ha vissuto dopo una infanzia di questo genere? Comincia a cantare presto nei locali e, una sera, la sua voce è udita da John Ammond che la porta subito da Benny Goodman. Dopo il re del clarinetto, Billie conosce i veri jazzisti del momento, tra i quali Lester Young che diventa il suo sassofonista e l’uomo con il quale instaurerà un rapporto sentimentale molto forte. La sua voce rappresenta la voglia di morire, la mancanza di forza di andare avanti e di affrontare tutti quelli che la feriscono. “Solo due donne nella mia vita non mi hanno mai offeso: mia madre e Billie Holiday”. Il suo modo di cantare è pigro, trascicato. È riconoscibile per il suo modo di tagliare le frasi, di scandire bene le parole, di dare un significato ad ogni nota e ad ogni pausa. La voce è rauca ma fredda e vive quasi totalmente nella parte bassa del pentagramma. Le sue non sono variazioni, non ricorre a scat o improvvisazioni bensì arricchisce una melodia con delle inclinazioni musicali attraverso le quali sottolinea un umore, una sofferenza, un dolore.  Anche una canzone allegra, cantata da lei, trova quel filo di angoscia, di diffidenza verso il mondo e le persone. È sicuramente la cantante che insegna il concetto di essere sé stesse, di non copiare mai nessuno, di vivere una canzone come se fosse stata scritta da te. Infatti, Billie la potresti riconoscere tra mille voci e chiunque la senta una sola volta, sente qualcosa farsi strada nella propria anima, con la stessa forza e violenza con la quale lei urla l’odio verso la vita. Sono note, più delle altre registrazioni, le interpretazioni di “The man I Love”, di “I’m a fool to want you” e di “Lover man” ripetutamente usate per le pubblicità e come colonne sonore di pellicole cinematografiche. È autrice di canzoni autobiografiche. Una notte sorprende il suo uomo con un’amante. Lui tenta di spiegare e lei, abituata alle umiliazioni e ai tradimenti gli dice “Dont’explain (non spiegare)”, parole che danno il titolo ad uno standard straziante. Billie dice di questa canzone: “è una delle canzoni che non riesco a cantare senza patirci un poco ogni volta. Anche tante donne mi hanno detto di essere state male ascoltandola”. Un'altra sua creazione è “Strange fruit”, inno contro il razzismo. Nel 1956 scrive una autobiografia “La signora canta il blues”, libro che, oltre a far conoscere uno straordinario personaggio della musica blues e jazz, insegna, a modo suo, a vivere.
Non conosce la musica, non sa leggere uno spartito e per lei un termine musicale vale un altro. Eppure, basta farle sentire un accordo, quasi sempre in minore, e la sua voce comincia a raccontare il suo orribile passato, il suo penoso presente, il suo inesistente futuro. È un modello per tante voci che la seguiranno. Frank Sinatra la adorava. Nina Simone, Sarah Vaughan e perfino Ella Fitzgerald capiscono il suo messaggio di cantare dando voce al proprio io, alla propria anima, alla parte più intima di sé stessi, per fare il vero jazz e per essere delle vere artiste. “Se una cosa non la sento non la posso cantare”. In una cosa è riuscita. Voleva cantare per tutta la vita e cantare come voleva lei.   
Eppure la sua vita conosce un momento di ricchezza. Ha migliaia di ingaggi e vende milioni di dischi, ma nei locali deve sempre entrare dalla porta posteriore e accettare gli sguardi distaccati dei bianchi che l’ascoltano con ammirazione, ma che mai le si avvicinano per complimentarsi o per darle la mano. Sempre elegante con la sua gardenia tra i capelli, muore con il desiderio di aprire un locale tutto suo, dove tutti i neri possano suonare senza problemi. “Un locale di centoventicinque posti, intimo. Averci il mio pianoforte, la batteria e una chitarra swing”.
Muore a 44 anni a causa di malattie dovute all’uso di droghe, ma forse la causa vera della sua morte è stata la solitudine, il non aver nessun motivo per restare in vita.

viviinjazz

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