Paolo Conte: il genio della musica italiana dai due soli vizi, le sigarette e il jazz.
La tua musica elegante, come lo sei tu, con quell’aria da poeta francese, con il fascino da uomo italiano, con l’anima di un jazzista americano.
“Ho la musica nel sangue e il jazz nella pelle” e lo dimostri scrivendo musiche raffinate, pulite, a volte passionali, a volte ironiche, spesso divertenti, raccontando storie non vere o storie incredibilmente reali che personalizzi con i tuoi fraseggi semplici ma giusti al pianoforte, con i tuoi “ta-ta-ta-rata”, con o senza senso, con la voce e con le smorfie del viso con le quali arrotondi e rifinisci il significato di alcune frasi delle canzoni.
Un giorno mio padre torna a casa e, unendo le mie mani mi porge alcuni tuoi cd, dicendomi: “Senti che genio. Ascolta che meraviglia”. Ero una ragazzina di circa sedici anni e ricordo che, in pochi secondi, strappo quella carta antipatica, liscia e lucida, che ricopre i cd, quella stessa carta che non riesci mai a capire da dove va rimossa e, in breve tempo inserisco il primo nel lettore. “Via via, vieni via con me…”. In pochi secondi entri a far parte della mia vita. In un viaggio immaginario, salgo con te sul tuo “Aguaplano”, innamorandomi della tua parlata trascinata, delle tue stonature “perfette” e accurate, della tua voce rauca. Voliamo in cielo attraversando una città dopo l’altra e, mentre mi rendo conto di quanto sia stupendo vedere il mondo dall’alto, mi canti e sussurri le tue più belle canzoni. Ad un certo punto dirigi l’aguaplano verso terra e, avvicinandoci ad un carretto, mi offri un “Gelato al limon”.
In realtà, sono seduta sul mio salotto e non so ancora che viso tu abbia, ma ti immagino simpatico. Ascolto i tuoi ammiccamenti lievi, il suono a volte divertente e a volte malinconico del tuo kazoo, a seconda che lo usi in “Bartali” o in “Recitando”. Mi accompagni e mi mostri l’Argentina, dove mi insegni a ballare e sogno, percependo il tatto delle tue mani vissute, non estremamente morbide, ma di certo affilate e calde. Mi fai alzare dal salotto. Indosso un vestito nero, lungo con uno spacco alto e da ragazzina divento una giovane donna. Le mie gambe si intrecciano alle tue mentre tu mi bisbigli: “mi avrai, verde milonga inquieta che mi strappi un sorriso di tregua ad ogni accordo…”. Il contrabbasso accompagna il movimento dei nostri corpi mentre da lontano sento il bandoneon cantare con te. Dopo, riprendiamo il volo e cadiamo sui cieli di Parigi. Nei giardini di Champs-Elysees mi reciti: “lo, lo che questo non è cipria, è sorriso…e sì, che non è luce, è solo un attimo di gloria”. Apro gli occhi e rido, rendendomi conto di essere sdraiata sul mio salotto, senza trucco e con una ridicola mollettina in testa che mi tira su i capelli.
Non appena dischiudo gli occhi nuovamente, mi trasformo in una Ginger Roger che balla con te, il mio Fred Astaire, sulle parole “era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti…”, ma la cena è pronta e devo scendere dall’aguaplano. Mi accompagni a terra e, baciandomi sulla punta del naso mi dici: “chiamami, adesso che, ho bisogno io di te”.
Da quel giorno, dopo mesi di note, mio padre ed io veniamo a Lecce, a vederti per la prima volta. All’inizio il pubblico è educato. Applaude con rispetto, con la paura quasi di disturbare, ma poi, inevitabilmente comincia a cantare fino a quando tutti, me compresa, ci spostiamo ai piedi del palco. Ero ad un passo dal poterti toccare. Era la prima volta che ti vedevo, ma ti conoscevo benissimo. Avevamo viaggiato tanto insieme. Che meraviglia i tuoi testi, gli arrangiamenti, i musicisti eleganti, preparati, rigorosamente in smoking.
Resto lì ad assorbire musica. Il jazz entra dentro di me in silenzio, impercettibile e vado via, alla fine, con la conferma di aver conosciuto un grande musicista che mi trascina nel mondo del cinema, del teatro, regalandomi canzoni come “Jimmy ballando”, “Nessuno mi ama”, “Epoca”, “Una faccia in prestito”, “Razmataz” e “Elegia”.
Pochi anni fa sono venuta a trovarti al “Sistina” e riesco a conoscerti di persona. Alla fine del concerto, dopo aver visitato il mondo attraverso le tue note, dopo aver sentito i commenti piacevoli di chi avevo accanto, dopo aver lasciato scivolare sul mio viso qualche lacrima per la commozione, dopo aver cantato a squarciagola, con tutti, “Via con me”, per la bellezza di tre bis, entro nel tuo camerino. Il cuore in gola, le mani sudate, gli occhi sicuramente mi scintillavano per la gioia. Eri di fronte a me. Capisci il mio imbarazzo e l’emozione, allora, prendi le mie mani, conduci il mio corpo a sedermi, con quella stessa grazia con la quale mi sollevavi dal mio salotto quando ero più giovane e, con il tuo buffo sguardo mi tranquillizzi e comincia a parlarmi. “ho conosciuto cose di me attraverso la sua musica…” ti dico con quel filo di voce rimasto nella mia gola. Tu mi sorridi e mi abbracci forte. In quell’abbraccio sento la gratitudine ma, soprattutto, l’umiltà e la grandezza di un uomo che mi sussurra: “Ti ringrazio, ma sei troppo gentile”, arrossendo come fosse il primo complimento della tua vita. Restiamo lì a parlare per un po’, poi, usciamo insieme dal Sistina e aspetti con me il taxi che ho prenotato per tornare a casa, come solo un signore avrebbe fatto, come un Sir d’altri tempi. La gente ti ferma mille volte. Chi ha un cd in mano, chi i tuoi libri. Tutti per un autografo. Tutti per poterti toccare una sola volta. All’inizio mi sento scomoda e allora azzardo un “arrivederci”, ma tu mi dici “aspetta” e mi fermi con gli occhi. Il mio corpo, allora, si immobilizza e temporeggia.
Arriva il taxi e, aprendo tu lo sportello dell’automobile, mi diverto a vedere lo sguardo del taxista che ti riconosce e mi sento a tre metri da terra sentendomi osservata dalle persone rimasto in attesa fuori dal teatro per salutarti. “Arrivederci, è stato un piacere”, mi hai detto. E tornando a casa, nel completo silenzio della notte, penso ironicamente: “è stato un piacere. Il suo?”
In questo spazio avrei potuto parlare meglio delle tue canzoni, del tuo linguaggio pianistico, del tuo amore per il jazz, del tuo modo originalissimo di cantare, di recitare, di spezzare le sillabe e renderti comprensibile a tutti, della tua poesia, dei tuoi quadri, del tuo non utilizzare la tua arte come veicolo per parlare di politica, della tua cultura, di quanto il mondo ci invidi, di quanto ci abbiamo impiegato, come sempre, a riconoscere un vero artista, di quanto l’Italia sia lenta nel comprendere il talento e di riconoscerlo solo quando è la Francia , l’Austria e, nel tuo caso, anche l’America, a farcelo notare. Ma basta comprare un libro o digitare “Paolo Conte” in qualsiasi motore di ricerca su internet e si può sapere tutto di te. Pertanto, caro Paolo, con queste “parole d’amore scritte a macchina”, sarei felice di sapere che ti ho restituito anche una sola emozione, dopo tutte quelle che tu hai regalato a me e ora mi imbatto in un altro viaggio, facendo scivolare il tuo ultimo cd live dall’Arena di Verona. Mi servo un prosecco freddo, mi sdraio sulla mia poltrona preferita, chiudo gli occhi e tu mi sei di nuovo accanto. Chissà che un giorno, tu mi dica “vieni via con me” e partendo verso nuove mete, mi lasci scivolare nelle mani il biglietto di viaggio, con lo stesso amore con il quale mio padre mi consegnò le tue poesie in musica. Ma questa volta spero che il biglietto sia di sola andata.
viviinjazz
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