Chet Baker: se non l’avete ancora sentito, correte ai ripari. State perdendo l’occasione di sentire parlare una tromba, sentirla piangere, raramente ridere, di certo vivere. “L’angelo dalla faccia sporca”, una vita vissuta tra jazz e droga, una tromba piena di swing e di malinconia, una voce assolutamente delicata, sottile. Le sue parole preferite: “voglio suonare”, e quando lo fa, si rannicchia su sé stesso, quasi in cerca di protezione, di difesa, posizione, oggi, assunta dai migliori trombettisti jazz, sapendo che è l’unica cosa che possa minimamente avvicinarli a lui. Gli occhi rivolti verso il basso, nel suo sguardo è racchiusa tutta la follia, il tormento di un uomo che potrebbe avere tutto e che tutto, invece, è capace di distruggere. Un libro assolutamente da avere per poterlo conoscere meglio é “La lunga notte di un mito” di James Gavin. Ma io, con questo primo articolo su Baker, proverò ad andare oltre, lì dove non ha permesso a nessuno di entrare. Chet è la prova più evidente di quanto il dolore, la gioia, tutto il peggio e il meglio del musicista non possano scindersi dal jazz. La vita di Chet è continuamente tormentata, all’inizi da una madre che gli compra le bambole e lo tratta da bambina per quanto sia strepitosa la sua bellezza, da un padre che vorrebbe suonare e si chiude con amici a fumare erba, nel tentativo di riuscirci, Chet è tormentato dalla difficoltà, più avanti, di imporsi ed infine meritarsi appieno la critica di migliore trombettista di tutti i tempi, superando Miles Davis che, come tutti i musicisti di colore, sostiene che il jazz sia nero. Nella sua musica si possono contare gli errori commessi, sentire il sapore amaro delle lacrime, il dolore dei segni sulla sua pelle, sul suo corpo lasciati dalla droga. Poco prima di morire dice “tempo fa ho cominciato a scrivere una biografia. Ma scrivendo mi sono reso conto che nessuno mai mi crederebbe”. Dice queste parole con la stessa voce con la quale mille donne si sono innamorate di lui e hanno accettato la sua incapacità di amare pur di stargli comunque vicino, perché solo il vederlo, solo il sentirlo suonare le ripagava di tutto quello che mancava. La sua voce criticata all’inizio. “Sembra una donna, è troppo esile”. Oggi è ancora “causa scatenante” di momenti meravigliosi da vivere sia in solitudine, sia con la persona che ami. La sua voce è come la voce della sua tromba. “Se non fossi stato un trombettista, non sarei potuto diventare un cantante, perché quando canto, nella testa, è come se suonassi”. E infatti, la sua voce ci arriva limpida, pulita, dolce e calda come il suo strumento. Chet è anche la prova che il jazz non è una valanga di note lanciate in aria, non è solo studio, non è quella musica nevrotica e incomprensibile. I “jazzisti” italiani dovrebbero sentirlo ogni giorno, almeno un’ora, come una preghiera, per capire che il jazz è tecnica più quel qualcosa che solo gli americani hanno. Non so cosa possa essere e dove viva. Forse proprio nel Dna, ma di certo appartiene solo a loro. È stato ascoltando Chet che ho capito meglio la differenza tra i jazzisti americani e quelli italiani e europei. Il limite non è individuabile tecnicamente, perché da questo punto di vista sono circa sullo stesso piano. Sempre mio padre, fonte della mia conoscenza, mi ha raccontato di quando, in una rassegna jazz in provincia di Roma, una sera erano a confronto gruppi jazzisti italiani dalle varie tendenze. Grossi nomi del firmamento jazzistico e ospite un certo Baker. È seduto su un trespolo nascosto dalla coda del piano. La tromba tra le mani e le dita che si muovono sui tasti a vuoto. La tromba italiana è un grosso nome e usa il flicorno in Sib per ottenere la voce che riesce ad avere Chet. Attacca “My funny Valentine”. Al chorus dell’improvvisazione passa alla doppia divisione con un fraseggio di alto livello tecnico. Seguendo il tema “My funny Valentine” si allontana spinta dalle note incalzanti, provocatorie, rapidi, provocando un rumore di applausi a scena aperta. Il divismo prende il sopravvento sull’anima. Chet si alza e, con camminare incerto, riesce ad arrivare al microfono. Stesso tema, altro chorus, una sola lunga nota, soffiata, seguita da frasi leggere e suadenti. Il tema, sparito con la precedente esibizione, ricompare forte, struggente, unico. Qualcuno disse che l’esecuzione doveva ancora avvenire, perché sembrò una fase di riscaldamento. Altri avvertirono una provocazione. Gli applausi pochi e di convenienza. Ma qualcuno scrisse di aver assistito ad un confronto fra il Conservatorio Santa Cecilia e il jazz. Il Conservatorio, senza dubbio, fu nettamente perdente, ma nessuno ha capito la lezione. Ha fatto tutto presto, Chet. È cresciuto presto, ha consumato la vita presto, è morto presto, lasciando un vuoto insostituibile.Una notte, non si sa come, cade da un balcone ad Amsterdam, in posizione fetale, rannicchiato come era nelle serate, come se stesse ancora suonando, come se dicesse: “nemmeno la morte fermerà la mia musica. Continuerò a suonare”. E così è.
viviinjazz
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