Una ragazza borghese di Washington gli chiese cosa avesse mai fatto per essere stato invitato ad una serata alla Casa Bianca in onore di Ray Charles. Rispose: “io ho cambiato la musica quattro o cinque volte. Lei cosa ha fatto di così importante, oltre ad essere bianca?”. Vi presento il trombettista Miles Davis, il musicista tra i più arroganti e tra i più ad aver sofferto per il colore della sua pelle. Ma è vero. Ha cambiato il suo modo di suonare il jazz molte volte. Basta pensare che comincia con Parker e Gillespie esprimendosi nel be bop e termina con un jazz elettronico, quasi psichedelico. Passa dallo stile cool al jazz modale, dalla fusion al jazz rock. Vari i suoi appellativi: “il divino”, “il principe delle tenebre”. I suoi inizi sono testimoniati dal cd “Birth of the cool” e dalle varie registrazioni con Mulligan e Bill Evans. Questo jazz è caratterizzato da contrappunti, armonie leggere, interpretazioni rilassate. Il suono della sua tromba è afono, tranquillo e caldo. Ma con l’immediato successo, Davis regala la sua vita alla droga e la sua musica ne avverte la sofferenza. La tecnica comincia a perdere serenità e dolcezza, le note sono colme di eroina, l’entusiasmo si smarrisce nel vuoto, ma il pubblico continua a seguirlo ovunque. Nel ’55 Davis sperimenta la creazione di un quintetto che lo condurrà dritto dritto nella storia del jazz. La sua musica diventa più astratta, fredda e molto tecnica. Non ha più quei fraseggi teneri e comprensibili e diventano innumerevoli gli acuti e le battute colme di note, estremamente mature ma senza sangue nelle vene. La musica di questo periodo certamente esprime appieno gli anni bui di Davis, dovuti ai suoi problemi di salute e soprattutto al successo del trombettista Chet Baker che fa una musica completamente diversa dalla sua e che, principalmente, è bianco. Non nasconde mai l’odio verso Baker, dichiarando spesso che il vero trombettista si chiama Miles Davis e mettendo a dubbio la sua virilità, per il suono dolce e sensuale della sua tromba e della sua voce. Nel ’57 afferma: “bisogna accettare che il jazz è cambiato. Non è più lirico e armonico ma modale ”, esaltando così il suo modo di suonare e prendendosi anche un po’ il merito di quel cambiamento. Sempre nel ’57 Davis, con il grandioso batterista Kenny Clarke firma la colonna sonora del film “Ascensore per il patibolo”, pellicola assolutamente da vedere. Nessuno avrebbe potuto fare meglio. La sua tromba è quella giusta per accompagnare le immagini del film. C’è mistero, arroganza, emozioni a non finire. Fa parte certamente della lunga schiera di jazzisti carismatici, dalla personalità molto forte e il suo jazz è assolutamente inimitabile e inconfondibile. Intorno al ’68 si getta nel jazz elettrico, jazz basato su sintetizzatori e fiati elettrificati. Con questo jazz, Davis cambia il suo pubblico, perdendo i sostenitori del jazz “classico” e avvicinando un pubblico più giovanile, forse meno “impegnato”. Resta il fatto che inizia un nuovo periodo del jazz, perché dopo Davis, anche musicisti come Hancock, Corea, Zawinul dedicano la loro arte all’elettronica. Usando strumenti elettronici è logico che si entra in una musica più colorata, più varia, più fantasiosa, che perde, però, il senso reale del jazz perché molti suoni sono artefatti e si fa uso di “trucchi” per creare effetti nuovi e stupefacenti. Ma si differenzia dal rock e da tutti gli altri generi musicali che adoperano strumenti elettronici per il fatto che resta, senza dubbio, una musica matura, basata su una tecnica jazzistica e su una improvvisazione che ha alle spalle anni di storia e di testimonianze musicali dei migliori jazzisti al mondo. Diciamo che il netto cambiamento di stile di Davis avviene quando la sua salute lo abbandona sempre di più. È tornando da una lunga convalescenza dovuta al diabete e alla dipendenza di eroina e cocaina che Davis comincia a dedicarsi alla fusion per abbandonare lentamente il jazz “più serio”, forse perché si accorge che facendo una musica più commerciale, più comprensibile, avrebbe potuto risolvere, quanto meno, i problemi finanziari e avrebbe potuto procurarsi la droga più facilmente. Ma resta un grandioso genio del jazz, suonando fino a 65 anni, morendo a Santa Monica per un attacco di polmonite. Per la sua “bipolarità” professionale è amato da tutti, perché proprio per aver cambiato stili musicali, ognuno di noi ha un piccolo posto per lui. C’è chi lo ama per il suo jazz e si emoziona con “’Round About Midnight”, chi lo ama per le sue composizioni rock e schiocca le dita con “In a silent way”, perché come pochi sanno fare, rinnovandosi sempre, sa ipnotizzarti, meravigliarti, emozionarti e catturarti.
viviinjazz
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