giovedì 17 maggio 2012

BENNY GOODMAN


Il clarinetto del jazz chi è? Benny Goodman, il re dello swing. Nel 1935 nasce la sua musica, la sua orchestra. Occhialini, gessato nero, non un capello fuori posto, tutti pettinati all’indietro, clarinetto nero e argentato, lungo e magro, come la sua corporatura. “Il mio obiettivo è quello di suonare una musica capace di piacere al pubblico, senza doverlo impegnare, creando armonie di classe ma divertenti e orecchiabili”. Il suo swing è caratterizzato da una decisa punteggiatura che crea quel “simpatico” ritmo trascinante e coinvolgente. Affianca senza difficoltà lo swing già presente nelle orchestre di Count Basie, di Jelly Roll Morton, di Duke Ellington, ma che hanno difficoltà nell’affermarsi, inizialmente, per i consueti pregiudizi razziali. Le orchestre nere o dirette da maestri di colore trovano sempre difficoltà nel farsi conoscere e nel poter esibirsi in locali pubblici o anche in trasmissioni radiofoniche. Goodman, essendo un affascinante uomo bianco, trova di certo la strada più facilmente percorribile. Con il “King of swing”, questa musica più vitale, più ritmica del panorama jazzistico diventa il genere musicale preferito da ballare e da canticchiare per tutto il periodo che va dal ’35 al ’47. Benny Goodman è senza dubbio il numero uno del clarinetto e nessuno, ancora oggi, ha saputo essere all’altezza della sua musicalità, della sua tecnica e della sua ritmicità jazzistica. La sua fama, l’essere diventato milionario già all’età di trent’anni, è dovuto anche alle collaborazioni con i migliori arrangiatori del momento che creano una musica che sembra nascere direttamente dalle sue mani, poichè utilizzano un linguaggio musicale  che si basa  sul suo stesso stile. Gli arrangiamenti rimasti memorabili sono quelli di Fletcher Henderson, tra i quali troviamo “King Porter stomp”, “Love me or leave me”, “St. Louis blues”, arrangiamenti ricchi di variazioni, di contrappunti, di “botta e risposta” tra ottoni e sax, (caratteristica dell’orchestra di Goodman in quasi tutte le sue registrazioni). Altre importanti collaborazioni sono quelle con Spud Murphy, Dean Kincaide e Jimmy Munday,  nomi di alto livello che creano le versioni più note dei maggiori successi dell’orchestra di Goodman. Basta pensare alla famosissima “Sing, sing, sing”, resa nota come colonna sonora di vari film e pubblicità, interpretata dalle migliori voci del jazz, (si ricorda particolarmente quella di Anita O’Day). Questo brano è arrangiato da Jimmy Munday e arricchito da un ricco lavoro di tamburi toms di Gene Krupa. “Sing , sing, sing” diventa un inno americano in brevissimo tempo, divertente per il suo ritmo incalzante, per la sua melodia sincopata e veloce. Non meno importante è il lavoro con Edgar Sampson che orchestra “Stompin’ at the savoy”. Ma la lista degli arrangiatori è infinita.
Le serate musicali di Goodman sono caratterizzate da standards già noti, resi facili da seguire con il corpo e con l’orecchio. Preferisce suonare pochi brani originali per non rischiare di annoiare il pubblico. Conclude sempre con “Good-bye”, brano malinconico, dall’andamento un po’ triste come se volesse accompagnare la gente a casa, verso un sonno tranquillo.
Goodman è un perfezionista. Tutto deve filare assolutamente nel modo giusto. Categorico e preciso, pretende attenzione e il massimo del risultato dai suoi musicisti. Per questo motivo tanti orchestrali si auto licenziano e abbandonano improvvisamente il “Re”. “Voglio che tutto quadri. Suono, puntualità, intonazione e interpretazione”. Forse troppo esigente ma è per questo che nascono interpretazioni fantastiche di “In a sentimental mood”, I’ve found a new baby”, “My melancholy baby”, “Moonglow”, “Memories of you”.
La sua orchestra sembra essere l’unica in quegli anni. La gente la segue in qualsiasi locale si esibisca dimenticando l’esistenza delle altre formazioni. Ma non dimentichiamo la cosa più importante. Al di là degli arrangiamenti e delle abilità di Goodman nel dirigere l’orchestra, sono gli assoli e la voce del clarinetto che spingono ad amare questo musicista e a farlo entrare nella  storia del jazz.
Gli assoli energici, ritmici, personali. Il timbro caldo, l’abilità nel variare i volumi, brillante e mai stridente come si sente spesso da altri clarinettisti. La voce è vellutata, riesce a strappare un sorriso quando suona con una voce mordente e allegra e riesce a commuovere quando prende note gravi  diventando delicato e spensierato.
Simpatico con il suo chewing-gum, con le sue acrobazie, con le bacchette e la “liquirizia” (come è stato definito il  clarinetto da Hengel Gualdi, clarinettista italiano), Benny Goodman resterà per sempre il solo e l’unico Re dello Swing.

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articolo già pubblicato

viviinjazz

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