giovedì 17 maggio 2012

MICHEL PETRUCCIANI


    

 Un “piccolo” genio nasce nel 1962 a Montpelier, in una famiglia di musicisti. Purtroppo Michel è affetto da una deficienza di calcio, scientificamente chiamata “ostegenesis imperfecta”, anche nota come “malattia delle ossa di vetro” che ne blocca la crescita. Questa malformazione lo porta, lentamente, alla morte nel 1999. Ma questa è l’unica cosa negativa che dirò di Michel, anche perché è l’unica di questo piccolo corpo, ostacolato nei movimenti, con una faccia simpatica  e due grandi occhi colmi di vitalità.
     Dio, o chi per Lui, ha voluto che le mani di Michel rimanessero estranee a questo male, mani che lo hanno reso un musicista e pianista straordinario. La sua è una lotta contro il tempo, sa di avere i giorni contati e questo pensiero è presente in ogni sua composizione, è percepibile in ogni nota e in ogni silenzio delle sue improvvisazioni.
      Solo una cosa a proposito della sua malattia. Michel scrisse un blues intitolato “Dumb Breaks”. Un blues “dedicato”, in qualche modo, al rumore che facevano le sue ossa quando si  rompevano. È un blues energico che rende l’idea del suono che si sente quando qualcosa si disintegra, creando una situazione fastidiosa e, nel suo caso, anche dolorosa.     
     Potrei parlare tanto di lui e sarebbe sempre troppo poco, risulterebbe riduttivo. Il suo virtuosismo, l’acuta sensibilità dell’armonia, la pulizia e la leggerezza del fraseggio, la tecnica illimitata, la capacità di far “parlare” il pianoforte e di far dimenticare completamente il suo handicap a chi gli era di fronte. All’interno di un suo concerto o di una sua registrazione non si è mai udito nulla di scontato, nulla di ripetitivo e vive un linguaggio evolutivo dove trova spazio la ricchezza dello swing, il calore della bossanova, le influenze delle forme classiche, tra cui  quelle di  Beethoven e di Bach.  Ma preferirei parlare più dell’uomo Petrucciani e del suo rapporto intimo con la musica, perché credo possa insegnare tanto a chi, oggi, è già un musicista di talento e a chi, invece, sta studiando per arrivare ad esserlo, certo che lo si possa diventare solo con la tecnica.
      Petrucciani diceva sempre “suonare è comunicare”.  Nelle sue note era ovvio che il suo solo pensiero era quello di rendere chiaro quello che voleva esprimere. Si dichiarava un po’ ladro di Erroll Garner, di Bill Evans, di Oscar Peterson, ma ci teneva a sottolineare che il suo stile era il suo stile. Lo stile di un musicista consiste nel suonare e basta. Lo stile non è cercare di mettere insieme elementi particolari con lo scopo di colpire l’attenzione dell’ascoltatore, bensì, si costruisce essendo sé stessi, lasciando andare le mani sulla tastiera e lasciando parlare l’intimo, il dolore, la gioia, la voglia di vivere e persino quella di morire. 
        Michel era preoccupato per il Jazz di oggi. Era convinto che i giovani musicisti hanno una tecnica maggiore grazie alle documentazioni, al materiale dei grandi jazzisti del passato, grazie alle trascrizioni, alle registrazioni lasciate nella storia della musica. Ma era altrettanto certo che questa cultura, ottenuta troppo rapidamente, senza viverla, non sarebbe mai riuscita a sostituire quella reale, quella ottenuta, invece, combattendo, lottando intensamente, giorno dopo giorno. Diceva:“il Jazz di oggi non trasmette quasi nulla. Non trasmette l’odio, il coraggio, la voglia di farcela in un mondo non facile. È un altro modo di vivere la vita e la musica, si sa,  è lo specchio della vita che viviamo. Chi non ha combattuto fa una musica fredda, senza senso. Non sento niente di nuovo, di caldo, di profondo nel Jazz di oggi. Io sono contento di appartenere ad un’altra generazione, a quella della fame, a quella del dolore”. Per questo motivo Michel Petrucciani sperava di riuscire a fondare, prima di morire, una scuola di Jazz internazionale in Francia. “E’ il lavoro della mia vita. Il Jazz sta morendo”.
      Oggi, a 5 anni dalla sua morte, forse, noi musicisti dovremmo tutti ripensare a queste parole, diventando nel nostro piccolo, una minuscola scheggia di quella scuola che avrebbe voluto costituire.
       A chi volesse cominciare a conoscerlo consiglio, per iniziare, il cd “Au Theatre des Champs-Elysees” del 1997, all’interno del quale c’è anche un omaggio al Jazz di Thelonious Monk. Michel afferma di essere solo in tre, in questa occasione: lui, il pubblico e il pianoforte. Un’occasione nella quale lui vuole essere onesto con chi lo ascolta. Perché “l’onestà è la prima virtù dell’artista”. Ha dichiarato di aver avuto paura nel trovarsi solo, con la sola compagnia del suo piano, davanti a duemila persone. Ma poi, quando è partita la prima nota, tutto ha cominciato a prendere forma, tutto è diventato facile.
       Aveva una visione del mondo romantica e ottimistica, e a proposito, vorrei  concludere citando un passo di una intervista rilasciata al giornalista Romain Grosman: “quando ho cominciato questo lavoro avevo voglia di sentirmi libero come un uccello, di poter volare dove mi pareva. Quella sensazione l’ho trovata solo con il pianoforte. Posso rompermi la faccia o qualsiasi altra parte del mio corpo ma sono libero. Volo. È il mio sogno che si realizza”. Ed è così, Michel. Ti sento suonare, nell’immensità del cielo. Sento suonare le note della tua versione di “Estate” di Bruno Martino, note con le quali io, personalmente, ho cominciato ad amarti e, per quel che vale, posso solo dirti grazie.


viviinjazz

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articolo già pubblicato

http://www.youtube.com/watch?v=HR_IeIPjK5g

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