giovedì 24 maggio 2012

L'ELEGANZA IN MUSICA...BRUNO MARTINO

Dimenticato.
Uno degli autori più grandi della musica italiana, un musicista completo, un compositore di altissimo livello. Eppure, molti delle nuove generazioni non sanno chi è e molti se lo sono dimenticato.
Bruno Martino. Comincia prestissimo a lavorare come musicista in rai, ma come sempre accade, è all’estero che inizia il suo successo anche perché il suo tempo storico è  segnato dal fascismo e da un Mussolini che, nonostante la sua passione per la musica jazz, non voleva che il jazz facesse breccia nei cuori degli italiani, ostacolando così il lavoro di chi, come Martino, avrebbe sicuramente reso all’Italia un approccio con il jazz più facile, cosa di cui anche oggi, anche se si dice il contrario, ne sentiamo la mancanza. Ma questo è un altro discorso con un’altra mia personalissima idea del jazz italiano. Ma torniamo a “Bruno”.

 Il suo mondo è composto quindi da jazz, ma nelle sue serate delizia anche con musica leggera italiana, classici napoletani e altri generi musicali, riformulati e ricamati con accorgimenti jazzistici, perche capisce da subito che in Italia non si poteva “vivere” di solo jazz.

Non ha limiti Martino. Spazia in ogni dove e in ogni come, con eleganza e stile.
Compone canzoni simpatiche e altre meravigliosamente struggenti.

Molto probabilmente la composizione che subito gli si associa è ESTATE.
Al di là di un testo semplice ma commovente come tante canzoni di amore, “Estate” si presenta con un’armonia musicale malinconica e suggestiva. La melodia si presta da subito ad essere riletta in chiave jazzistica e uno dei primi grandi musicisti a livello mondiale ad accorgersi della bellezza armonica di questo brano è Joao Gilberto che la interpreta in chiave bossanoveggiante.


Ma “Estate” trova casa anche nell’anima di Chet Baker (http://www.youtube.com/watch?v=XQD1wJtkkU8&feature=related)  e di Michel Petrucciani (http://www.youtube.com/watch?v=YP10H8tA28A&feature=related) che ne formulano varie versioni stupende e che, ricucendosela addosso, la trasformano in una pietra preziosa anche del loro personale repertorio jazzistico. Cantata anche da altri interpreti della musica italiana tra i quali troviamo Mina, Vinicio Capossela e Sergio Cammariere. Ma sono tanti i musicisti jazz e interpreti della musica italiana che la vogliono eseguire nei loro concerti, nelle loro registrazioni, nei loro successi perché “Estate” è davvero un classico dalle mille sfaccettature.

Ma non solo “Estate” fa parte della nostra vita e delle esistenze almeno di una parte di italiani.
“E la chiamano estate”, “Cos’hai trovato in lui”, “Baciami per domani”, “Basta solo un momento”, “Forse”. Un elenco di canzoni straordinarie che, attraverso le vene, arriva fin dentro la parte più profonda del cuore, restandoci per sempre.
Qualcuno, ascoltandole, si sarà innamorato, qualcuno avrà litigato, qualcuno avrà pianto, qualcuno avrà sorriso, ma chi ha vissuto lo stesso periodo musicale sa sicuramente di cosa sto parlando.
Io, personalmente, “non c’ero” e aggiungerei purtroppo. Ma grazie ad una famiglia di musicisti, porto con me, quotidianamente, qualcosa di lui. E non potrebbe essere altrimenti considerando anche la mia professione. Quante volte avrò suonato le sue musiche nelle mie serate? E quante volte ancora le avrò sentite anche per emozionarmi da sola, in casa, in automobile, davanti ad un tramonto di mare, dinnanzi ad un lago freddo di agosto, fantasticando di un amore mai arrivato ma sempre sognato.
E anche oggi, non riesco a farne a meno.

Non riesco a “sostituirlo” con i nostri “interpreti”, non riesco a sradicarlo dalla mia vita, personale e professionale, per dare il posto a nessuno che riesca a colmare la sua assenza.
Abbiamo fame di musicisti come lui.

Riservato, umile e “musicalmente malinconico”, Era definito il “cantante confidenziale” come pochi altri sapevano essere, per esempio Fred Bongusto, di cui parlerò in seguito.


Muore nel 2000, nel più completo silenzio, come se non volesse infastidire nessuno, quasi scusandosi del “rumore”. Anche qui, la televisione italiana pecca… pecca non ricordandosi di lui, pecca non riportandolo alla memoria, pecca non tentando minimamente di fare qualcosa affinchè anche le nuove generazioni possano conoscerlo, per quanto, considerando la qualità di musica ascoltata dalla maggior parte dei giovani di oggi, riesce difficile pensare che Bruno Martino possa trovare uno spazio anche per lui.
Pecca anche, però, chi l’ha dimenticato, chi l’ha conosciuto e messo da parte. Peccano le manifestazioni musicali nel non creare dei tributi, peccano le scuole stesse di musica che non lo menzionano, peccano gli stessi musicisti e interpreti di jazz contemporaneo nel non rappresentarlo, peccano tutti coloro che danno spazio a chi, molto spesso, non meriterebbe, togliendolo a chi ha fatto davvero cultura e ci ha rappresentato nel mondo. Ma questo è il problema di tutti i giorni della cultura italiana.

Muore il 12 giugno, un giorno di estate. Ecco perché, una volta di più, come diceva lui, anch’io… “odio l’estate…”


@diritti riservati
viviinjazz



mercoledì 23 maggio 2012

LESLIE, IL VOLTO DEL JAZZ

Capitolo uno


Era il mese di ottobre del 1930. Era una di quelle notti in cui l’unica cosa che Leslie avrebbe desiderato era morire. Vagava per la città, con la speranza di trovare, per sempre, in un posto qualunque, il suo riposo, la sua tomba, in legno semplice, senza lapide, senza fiori. Nessuna la conosceva, nessuno l’avrebbe cercata. Camminava lentamente, appoggiandosi prima a un lampione, poi a un muro, fissando per terra, come se volesse evitare di inciampare in qualcosa. Aveva un vestito bianco, un bianco da sposa, lungo sino ai piedi, con uno spacco che metteva in risalto la sua gamba esile, gracile, con tutta la sua bellezza di donna da ventiquattro anni. Indossava una scarpa alta, con quel tacco prominente da donna vissuta, come per volersi proteggere e difendere dalla sua ancora fresca ingenuità di fiore sbocciato da poco. Portava una borsa semplicissima e una collana di perle della madre, dalla quale mai si sarebbe separata. Camminava senza meta, senza mai voltare angolo. Era svampita, urtava il suo corpo a ogni ostacolo si trovasse di fronte, senza fare nulla per scansarlo. A volte sbatteva contro qualche individuo che usciva da un locale o da un portone, scontrandosi con sguardi arrabbiati o incuriositi. Sembrava non le importasse dove quel marciapiede conducesse. L’importante, per Leslie, era allontanarsi, il più possibile, da quell’appartamento del secondo piano, dove tutto era cominciato e, dove ora, era tutto finito. Leslie sembrava essere impazzita perché, benché fosse sola, ripeteva ad alta voce: “Clint, perché?”. Chi era Clint? Da dove veniva quest’uomo, così fortemente presente, da indurre una donna a non avere più voglia di vivere?


Capitolo due

Nel novembre del 1925 Leslie decise di lasciare Yale, nell’Oklahoma, per trasferirsi a New Orleans, in cerca di fortuna, quella stessa che rincorreva da sempre, di quella fortuna che mai si era degnata di avvicinarsi al suo corpo.
Orfana di madre dai suoi dieci anni e con un padre in galera per averle ucciso la mamma, colpendola con tutta la forza dei suoi muscoli e la cattiveria coltivata nel suo cuore, prese la decisione di andar via, in una delle sue tante notti passate a guardare il soffitto.
Arrivò nella magica città di New Orleans con speranza, con tantissima voglia di ricominciare da capo, di dimenticare quella che era stata la sua vita sino a quel giorno e iniziarne una nuova.
Appena arrivata in città, cercò un piccolo posto dove stare almeno per organizzarsi e ambientarsi. Trovò una piccola pensione al centro della città, e la cosa le fece piacere, perché si rese conto di essere vicina a tanti locali notturni dove poter cominciare a cercare lavoro, anche come cameriera o guardarobiera. Si fece accompagnare nella stanza, piccola ma accogliente. Un piccolo monolocale che le offriva la libertà di un castello.
“Grazie!” rivolse al proprietario e, rimasta sola, aprì immediatamente la finestra, per fare entrare un po' di aria nuova e pulita.
In silenzio si continuava a chiedere quanto fosse matura quella decisione, quanto fosse sensata. Senza farsi prendere dal panico, tirò un lungo sospiro e, guardandosi intorno, decise di sistemare quella poca roba che aveva messo nella sua unica valigia. Solo allora si rese conto di quanto fosse penoso il suo passato, di quanto poco la vita le avesse dato. Poco più di vent’anni entravano in una borsa di pelle vecchia. Osservando com’era ridotta rise ironicamente pensando che forse quella valigia aveva vissuto più di lei, forse aveva più cose da raccontare.
Finì di mettere tutto a posto in poco tempo e, con molta determinazione, decise di andare in giro per la città. Questo era quello che fece per i suoi primi giorni. Si alzava presto la mattina per imparare a conoscere quel nuovo posto, le sue strade, i suoi negozi.
Una mattina tornò alla pensione con un coloratissimo mazzo di fiori e un giornale con le offerte di lavoro e, sedendosi alla scrivania piccola e consumata, disse: “New Orleans cominciamo”.







TI CONSIGLIO DI ASCOLTARE... (2 consigli)



    CHET BAKER – The Pacific Years. Prince of Cool
Pacific Jazz 

È un cofanetto di tre splendidi cd. Ognuno di essi è un ritratto delle tre “facce musicali” di Chet Baker: “Chet Sings”, “Chet Plays” e “Chet &Friends” e raccolgono le più belle registrazioni che vanno dal 1952 al 1957, il periodo in cui Chet Baker registrava per l’etichetta Pacific. Questo periodo di cinque anni della storia del jazz, vede vivere il successo maggiore di Miles Davis e di Dizzie Gillespie, ma Chet Baker sembra non lasciarsi influenzare dall’esistenza di questi due grandi trombettisti, continuando ad essere “l’angelo dalla faccia sporca” di sempre e a registrare i più memorabili standards americani. In realtà sono gli altri che si spaventano di Chet Baker, considerando il suo alto livello tecnico, il suono della sua tromba più simile al flicorno, la sua voce con la quale riesce ad incantare e a far innamorare uomini e donne di ogni età e tutto questo con il particolare fastidioso della sua pelle bianca. I jazzisti neri sono sempre stati convinti del fatto che il jazz è nero e, ogni volta che un musicista bianco riesce a sottrarre loro attenzione, si sentono scippati da qualcosa di loro appartenenza. Ma come dice Stan Getz: “il jazz è sostanzialmente una musica fatta dai neri, ma ci sono alcuni bianchi che sanno suonare tanto bene, con tanta originalità quanto un nero. Non sono molti, ma so di essere uno di loro”. “Chet Sings” unisce venti standards all’interno dei quali una voce straordinariamente uguale a quello della tromba conduce al piacevole abbandono totale della propria mente e del corpo. La voce è la sua. Sola e unica. Calda, caratterizzata dai toni bassi, dall’espressione triste e malinconica, dalle poche variazioni ma giuste che lo aiutano, seppure per poco tempo, a liberarsi dall’incubo quotidiano della sua vita.
In “Chet plays” è la sua tromba a parlare insieme al trombone Bob Brookmeyer, al sax baritono Bud Shank, al piano Russ Freeman, alla batteria Shelly Manne e al contrabbasso Carson Smith. Qui si evince la sua comunicabile tecnica, il suo lirismo senza pari, il suono pastoso e ovattato, la maestria e la maturità della sua improvvisazione. In alcuni brani si percepisce l’ironia con la quale riesce a vincere i momenti più difficili della sua esistenza: la lotta contro la droga ma la continua ricerca della stessa, la incapacità di vivere accanto ad una donna e i suoi due matrimoni, l’amore per i suoi figli ma la sua totale assenza dalla loro vita.
“Chet with Friends” è una raccolta di registrazioni che lo vedono in alcune espressioni artistiche con altri musicisti che sono passate alla storia come classici del jazz.
Questo cofanetto è una annunciazione del grande musicista che, più di ogni altro nella storia del jazz, ha saputo essere l’Artista vero, quello che ha espresso in musica la sua vita, con tutte le fobie, le problematiche, gli ostacoli, la voglia di vivere e quella di morire e che lo hanno portato a fare ciò che realmente desiderava: suonare. Non ha mai tentato di separare l’Artista dall’uomo e questo è jazz.


     STAN GETZ – Cool

    Undici brani colmi di poesia formano questa ultima raccolta di Stan Getz, il sassofonista tenore che ha saputo, attraverso il suo strumento, condurre il mondo del Brasile all’interno di quello del Jazz, interpretando la Bossanova con il gusto, lo stile e l’improvvisazione del Jazz. Questo cd è una testimonianza di questa sua strabiliante capacità e di questo cambiamento che ha apportato nella storia della musica. Mancano, infatti, le interpretazioni ricche di tecnica e di improvvisazioni appartenenti prettamente al cool jazz. Ma, nonostante il cd sia più dedicato alla bossanova, sono percepibili le variazioni e le modulazioni jazzistiche che fanno di Stan Getz il migliore sassofonista tenore, per la sua voce riconoscibile tra tutti i sax della storia del jazz, per la tecnica di alto livello e l’espressione eccellente. La sua creatività artistica, il suo linguaggio tecnico, la padronanza dei fraseggi melodici, la sua classe cristallina lo rendono assolutamente unico e irripetibile.
In questo cd, tra le undici tracce, c’è una bella versione di “Aguas de Marco”, una calda “Misty”, più volte interpretata da Stan Getz con più formazioni e varie letture jazzistiche e una interpretazione prettamente bossanoveggiante di “Ligia”, cariche tutte di quei particolari tipici dello stile di Getz.


TI CONSIGLIO DI ASCOLTARE... (2 consigli)

KEITH JARRETT – RADIANCE
ECM 2005 

Registrato a Osaka nel 2002 è un cd basato esclusivamente sull’improvvisazione del pianoforte. Esce in contemporanea ad un dvd, sempre distribuito da Ducale, dal titolo “The art of improvisation”. Questo dvd è un insieme di momenti del grande pianista estrapolati da concerti, interviste, commenti di amici musicisti, addetti al lavoro, periodi della sua vita che raccontano esperienze indimenticabili e anche la parte triste della sua crisi depressiva.
Si può affermare che Jarrett torna a dimostrare la sua genialità, la sua creatività in maniera convincente e decisa. Spesso virtuoso, spesso incantevole nella sua dolcezza e nella sua grazia, oltre ad essere dall’ascolto piacevole e rilassante, risulta anche un ottimo metodo di studio per chi voglia perfezionare il proprio valore pianistico e il proprio livello tecnico.
È un album meditativo, interamente ricco di tutte quelle sonorità e strutture ritmiche delle quali l’improvvisazione jazz è fornita. Un cd da aggiungere alla propria collezione per la capacità di adattarsi ad ogni momento della giornata.



DAVE HOLLAND – OVERTIME
Universal 2005

Ha formato un big band di musicisti tra i migliori del panorama jazzistico contemporaneo e ha dato vita a questo cd dal titolo “Overtime”, in cui raccoglie sette tracce raffinate, arrangiate nel suo inconfondibile stile.
Dave Holland, contrabbassista tra i più canonici e validi, offre un nuovo lavoro, una miscela di agitazioni emotive, di trepidazione, grazie alla sua innata capacità di creare un’atmosfera rarefatta e impeccabile. Il suo linguaggio è elaborato ma non costruisce quel tipico muro che allontana, spesso e volentieri, il pubblico dalla comprensione del jazz. Bella la ritmica, suadente e classicamente sincopata, le tonalità sono piacevolmente roventi richiamando, attraverso un’improvvisazione colta e un’inventiva matura, dei paesaggi caldi e intimi. Particolare carattere è “imposto” a “Ario”, un brano viziato di una eccezionale attenzione nei dettagli. Il suo tocco delicato con l’archetto e altro lo rendono uno dei pochi musicisti degni di rientrare nella categoria dei migliori jazzisti al mondo.

martedì 22 maggio 2012



Il coraggioso muore una volta, il codardo cento volte al giorno

G. FALCONE

TI CONSIGLIO DI ASCOLTARE... (2 consigli)

PAOLO FRESU – TE LO LEGGO NEGLI OCCHI
Setteottavi 2005 distribuito Delta Dischi


Paolo Fresu si dedica ad una pellicola cinematografica per la Sacher Film, dal titolo “Te lo leggo negli occhi”. Con questo nuova colonna sonora, la tromba di Fresu è soffice, morbida, ovattata e trasforma in fantastiche note alcune sequenze del film, regalandone una lettura intensa e parsimoniosa, arricchendole di profondità e di significato lì dove forse da sole non arrivano con la recitazione o con i colori o per colpa di qualcosa che non si fonde tra attori e copione.
Sono molti i film che hanno avuto spazio nella storia con l’aiuto e, spesso e volentieri, esclusivamente perle musiche, e questa pellicola “approfitterà” del valido aiuto di Fresu che si esterna attraverso atmosfere e suoni che entrano nella loro parte con dolcezza, quasi avessero paura di essere indiscreti..
I brevi discorsi musicali riescono ad essere così piacevoli e illuminanti da poter essere ascoltati anche nel silenzio della propria casa e, paradossalmente, nonostante nascano per accompagnare un film, acquistano più valore ascoltandoli con gli occhi chiusi, perché in questo modo, si percepiscono quelle sfumature eleganti e vagamente struggenti che possono sfuggire fissando l’enorme schermo di una sala cinematografica.


LUCIANO BIONDINI – JAVIER GIROTTO
Terra madre – Enja Germania 2005 distr. Egea

Un disco ben riuscito quello di Girotto con Biondini, una splendida fusione di classicità e di originalità, un’alchimia nata da subito che penetra dentro l’anima per restarci a lungo. Poesia pura. Passionalità autentica. È immediata l’atmosfera di intimità che si viene a creare, intimità che può essere quella di due giovani amanti al loro primo incontro d’amore. Attraverso le frasi dolci, a volte tenebrose, a volte lente, a volte rapide, attraverso le pause e le piroette di semiminime, sembra poter vedere lei in piedi che si lascia scivolare addosso una sottoveste di seta nera, mentre lui, impaurito e ansioso, la osserva, pronto ad accoglierla tra le braccia. Ogni nota sembra essere un desiderato lamento. Ogni fraseggio rapido è una mano che cammina sul corpo. Ad ogni battuta lenta corrisponde un abbandono, un lasciarsi andare all’estremo piacere. Non a caso il cd termina con un tango “la luna”. L’avvenuto incontro di due anime da vivere nel silenzio più totale e nell’oscurità di una candela.


TI CONSIGLIO DI ASCOLTARE..(2 consigli)

RICHARD GALLIANO -  Ruby My Dear
Dreyfus

Languido, passionale, evanescente è l’ultimo lavoro di Richard Galliano. Il pathos argentino unito all’eleganza del jazz è il risultato è “Ruby my dear”. L’unico che possa far continuare a vivere la musica di Piazzolla, Galliano, devoto, rispettoso e legato al musicista argentino, riesce sempre ad essere compenetrante e romantico perfino nei momenti di grande virtuosismo e di energici fraseggi.
L’ascoltatore può lasciarsi catturare da ogni languida sfumatura e vibrare nel ciclone di continue emozioni. C’è del dolore straziante, la speranza, e il ricordo, tutto sottolineato da “giochi” armonici pungenti, nervosi, pizzicati o melodie lunghe e trascinate. Le frasi del bandoneon sono pennellate di un pittore su una tela, colpi di martelletto su una statua per rifinire il profilo di un volto, sono la voce di una donna che canta di notte. Arpeggi ascendenti e discendenti toccano l’anima e si intrecciano come le gambe di due ballerini, che spiandosi negli occhi e trovandosi, si uniscono, esattamente come accade in questo cd tra il tango e il jazz.


PAOLO FRESU QUINTET – Kosmopolites

Primo album per la Blue Note, Kosmolites è l’ultimo lavoro del quintetto di Paolo Fresu. Caratteristica principale l’omogeneità, la perfetta armonia tra i componenti del gruppo. Scritto da Roberto Cipelli, il pianista del gruppo, il cd è formato da 14 tracce, tutte prove di una esemplare esecuzione basata su un alto livello di composizione e un’adeguata arte nell’interpretarla. Il merito di questo album è, inoltre, di Ettore Fioravanti alla batteria, di Tino Tracanna al sax soprano e tenore e di Attilio Zanchi al contrabbasso. Ottimo risultato per il primo di cinque cd che il gruppo dovrà registrare per la prestigiosa casa discografica Blue Note. Raffinata l’esecuzione dell’opera di George Friedrich Handel “Lascia ch’io pianga”. Delicato il tocco pianistico che riflette e interpreta il pensiero dell’autore, rispettandone il significato e non modificandone estremamente i tratti armonici. La tromba è sempre la stessa. Dolce e energica allo stesso momento, riconoscibile per il suono ovattato e suadente e per l’essere sempre discreta con il sapore di un jazz di altri tempi.

CIAO MELISSA

Piove. Piove su Roma incessantemente da stanotte… ma credo che piova incessantemente anche a casa dei genitori di Melissa e purtroppo, non so e se quella casa vedrà di nuovo entrare un po’ di sole.
Melissa non doveva morire.
Doveva vivere questa vita, di ostacoli, di lacrime, di lacerazioni del cuore e dell’anima, di gioia ritrovata, di risate a crepapelle.
Doveva viverla questa vita di sguardi e parole, di silenzi e rumori, di luce e di buio, di sole e pioggia…di canto e di lamento, di carezze e schiaffi, di fuoco e acqua, di cielo e di terra, di salite e discese.
Doveva viverla questa vita che distrugge e costruisce, che abbatte o rialza, che respira o soffoca. Doveva viverla questa vita vincendo sul male, su colui che è stato padrone della sua esistenza, su colui che da lassù, se esiste, avrebbe dovuto, con un filo di vento, spostarla un po’ più in là….
Doveva viverla questa vita arrabbiata, incazzata, delusa, arrogante, cattiva per farla diventare, felice, serena, disingannata, umile, generosa.
Doveva viverla questa vita che regalare gioia a sé stessa, alla sua famiglia, ai suoi gatti che amava, al suo compagno, ai suoi amici,  ai suoi insegnanti.
Doveva viverla questa vita per dare filo da torcere a chi le avrebbe ostacolato la felicità, le soddisfazioni personali e lavorative, ai nemici e ai falsi amici.
Doveva viverla questa vita per conoscere quei sentimenti che a sedici anni ancora non aveva avuto occasione di conoscere…
Doveva viverla questa vita per fare mille fotografie ancora con sorrisi e capelli al vento.
Doveva viverla questa vita per imparare a suonare il pianoforte o a giocare a tennis
Doveva viverla questa vita per avere la possibilità di odiare l’uomo che l’avrebbe tradita per poi riconoscere colui che l’avrebbe resa madre
Doveva viverla questa vita per accompagnare i genitori alla chiusura della loro esistenza e per piangere sulla loro morte e non lasciarli a distruggersi per la sua
Doveva viverla questa vita per avere l’occasione di farsi leccare il viso da un cagnolino
Doveva viverla questa vita per avere la voglia di viaggiare e tornare
Doveva viverla questa vita di paure, di orrori senza però che nessuno le facesse male
Doveva viverla questa vita per scoprire la falsità, la cattiveria e l’ipocrisia della gente e unirsi a coloro che, invece, vivono nell’integrità e nell’onore
Doveva viverla questa vita per avere la possibilità di litigare con il mondo intero per un posto di lavoro scippato da un raccomandato e gridare “evviva” al momento del suo primo successo
Doveva viverla questa vita per capire se essere cattolica o se avere l’idea che quel Dio, che l”ha voluta accanto a se cosi presto”, per lei non avrebbe avuto senso.
Doveva capire ancora tante cose, doveva vivere ancora tante cose, doveva semplicemente vivere….
E nel dolore straziante ho seguito il funerale svoltosi in una chiesa gremita di politici altezzosi, con posto riservato davanti a tutti  come se fossero più importanti di un padre massacrato dal dolore; ho seguito il funerale svoltosi in una chiesa dove le parole (a mio parere) ancora piu offensive di un prete che, con la sua solita litania, l’accompagnava nelle braccia di un Dio che l’ha tolta da quelle della madre, sdraiata su un letto in ospedale; ho seguito il funerale svoltosi in un chiesa colma di lacrime di compagne con maglietta con su scritto il nome di Melissa e lacrime di un papà che stringeva la foto della madre cosi fortemente che sembrava cucito sulla sua pelle, come un tatuaggio incancellabile. E in tutto questo spero che il suo nome ci bussi nel cervello ogni mattina, che non ci lasci da soli a distruggerci per problemi futili o rendere invivibile la vita degli altri.
E un pensiero finale va a colui che ha schiacciato quel pulsante.
Se Dio esiste non capisco perche non ti prende immediatamente con se
Se Dio esiste non capisco perche non ti lanciato un fulmine che ti paralizzasse il cuore
Se Dio esiste non capisco tante cose.. ma spero che qualcosa di tremendo succeda presto nella tua vita che ti costringa disperato, affranto dal dolore e dilaniato da ferite profonde sulla tua pelle, a spararti in testa
Ciao melissa


lunedì 21 maggio 2012

CIAO ROBIN

21.05.2012
Sembra che la tristezza non voglia lasciarci...
tanti lutti.. e tutti ingiusti..
ma qui, su questa finestra, parlerò solo di Robin Gibb... che ha accompagnato la mia infanzia... e che ancora oggi mi diverte e mi commuove con la sua musica insieme ai fratelli.
addio anche a te.. Robin...

domani o nei prossimi giorni scriverò qualcosa su Melissa.. impossibile non salutarla, ma ora, non è mio potere riuscire a dire nulla.

giovedì 17 maggio 2012

ADDIO DONNA...

http://www.youtube.com/watch?v=ZUGqmGYMu6o&feature=related

Semplicemente ciao, Donna...

IL SUONO DEL PASSATO


     Quanto lo infastidiva quella luce dell’insegna di un piccolo market, che, filtrando dalla sua finestra, gli entrava dritto negli occhi, spenti dall’ incapacità, giunta troppo presto, di riuscire a emozionarsi ancora, soffiando nel suo sax. Ma non riusciva ad alzarsi. Non riusciva a muoversi.
     Il suo corpo giaceva fermo su un letto macchiato da gocce di sangue, vecchie, putrefatte, scese da tutte le parti del suo corpo che bucava iniettandosi tutto quello che poteva placare il suo dolore fisico e che poteva fargli ritrovare la chiave giusta che lo conducesse nella parte più intima della sua vita, quella parte di sé stesso che riusciva a raggiungere solo con l’improvvisazione, con l’istinto. La sua pelle era tutta segnata. Ormai si bucava dietro le ginocchia, sui piedi, alle gambe, all’inguine, perché le vene delle braccia erano diventate uno “scolapasta”, come si divertiva a definirle con gli amici, ironizzando la sua dipendenza.
     Accanto al letto, il suo sax, color argento, il suo solo compagno che non lo tradiva mai, il compagno con il quale lui, una sera faceva sesso, una sera lo accarezzava soltanto, muovendo su di lui lentamente le sue mani, un’altra sera ancora lo stuprava. E quello strumento, così silenzioso, anche in quel momento così vicino alla morte, era lì, presente a ricordargli i suoi ieri.
      Sdraiato su quel letto, si ricordò di quella sera, di un anno prima, agosto 1955, al Birdland. Arrivò al locale con la sua custodia nera, scorticata ai lati e con dei pezzi di rivestimento mancanti. Era ovvio che l’aveva usata spesso per difendersi da cazzotti di spacciatori che lo cercavano ovunque per i suoi debiti. Si fece spazio tra i tavolini con quell’aria da simpaticone, sicuro di sé, della sua fama, del suo fascino e sorrideva a tutti  quelli che si erano recati lì per sentire proprio lui. Salì sul palco che risultava stretto per il suo trio, ma non fece notare quanto questo difetto lo annoiasse. Si adagiò sullo sgabello vicino al piano, aprì la custodia e uscì il sassofono segnato, anch’esso come lui, dal tempo e dalla stanchezza. Lo prese tra le mani come se fosse una donna. Quella sera con decisione, con passione. Liberò le sue dita dal nervosismo e dalla pigrizia di tutta una giornata e inumidì le sue labbra. Aggiustò l’ancia del bocchino, prendendosi tutto il tempo che gli occorreva, senza preoccuparsi del fatto che non aveva nemmeno salutato i suoi colleghi. Ma poi, del resto, perché lo doveva fare? La star era lui. Un gesto rapido del braccio destro, dal basso verso l’alto, tipico gesto di chi comincia un brano in levare, segnò l’inizio di “Stella By Starlight”.
      Voleva tutta l’attenzione per sé e ci riusciva egregiamente. Il suo suono, vellutato ma deciso, a volte dolce e a volte crudele, le note basse e la sua immensa tecnica, che però mostrava appena, piano piano, come se non volesse essere invadente verso la canzone stessa, tutto questo faceva dimenticare a chi lo aveva di fronte, il modo poco elegante di presentarsi, i pantaloni sporchi di sudore, le scarpe che spiegavano esattamente i luoghi dove si era recato un attimo prima, i capelli grassi tirati all’indietro. Eppure, quando suonava, diventava la persona più bella e perfetta che si volesse incontrare nella propria vita. Aveva un suono seducente, pulito. Si rimaneva prigionieri della sua voce. Piacevolmente prigionieri e dipendenti. Non c’erano occhi aperti tra il pubblico. Tutti sognavano. E i sogni erano sempre gli stessi. Un uomo vicino al bar sognava la donna che aveva accanto. Un altro, più vicino alla cucina, sognava la ragazza che incontrava di nascosto dalla moglie. Una giovane donna in piedi, appoggiata al pilastro centrale del locale, sognava di vivere proprio con lui, non immaginando minimamente quanto sarebbe stata impossibile la sua vita, se questo fosse potuto realmente accadere. Lui appariva bello, sano, sereno. E magari lei pensava a quanto sarebbe stato meraviglioso portargli il thè, mentre lui suonava per lei gli standards più romantici mai scritti dai musicisti americani. Che ingenua. Non sapeva che lui suonava per sé stesso, mai per una donna, mai per un cane, mai per nessuno che non fosse lui. E non sapeva che la sua vita, a casa, non si svolgeva tra l’ascolto di un disco e un bacio alla sua compagna, bensì, dormendo poco, mangiando di meno, riducendo la sua pelle ad un lungo terreno segnato da graffi e croste. La sua vita era alla ricerca continua di una iniezione e, tra una iniezione e l’altra, viveva l’angoscia della morte.
      Però, che serata fantastica fu quella. Rideva con orgoglio e malinconia ricordando gli applausi per i suoi assoli strepitosi, la gente che si alzava in piedi per sottolineare le improvvisazioni, le urla di consenso al termine di ogni interpretazione calda e coinvolgente.
      Ora delle lacrime scendevano dai suoi occhi. Essendo sdraiato di lato, alcune trovarono casa immediatamente in una piega del cuscino, altre, invece, scivolarono prima sul naso, poi sulle guance, di seguito sulle labbra, per morire, infine, sul suo collo. Ma quel pianto durò poco. Cominciava ad avvertire fitte allo stomaco e il suo volto commosso dai ricordi, si irrigidì e indossò la maschera di sempre, quella in cerca di droga. Dedicò un pensiero di odio al mondo accorgendosi che non aveva nulla da spararsi nel sangue.
      Aveva tentato più volte di finirla con quello schifo. A volte, per mancanza di soldi si iniettava dell’alcool, accusando dolori atroci al punto da dover essere portato urgentemente all’ospedale. Certe volte era davvero deciso a pulirsi. Ma era più forte di sé. Come smetteva di drogarsi, notava che qualcosa non andava nel suo modo di suonare. Gli mancavano le idee, le proposte, l’abilità di emozionarsi e di emozionare, non riusciva a trovare le note giuste che rendessero un’improvvisazione degna del suo nome. Non trovava l’ispirazione e anche il suono che usciva dal suo strumento era freddo, senza vita.
      Cercando di alzarsi fece cadere un bicchiere vuoto che aveva sul comodino. Si trattava di un bicchiere di gin che aveva bevuto chissà quanti giorni prima perché cadendo, il bicchiere aveva lasciato un segno rotondo creatosi dal liquido misto a polvere e briciole di biscotti.
      Dopo pochi secondi che era in piedi, sentì la necessità di risedersi a letto e, avendo problemi nel mettere a fuoco le immagini, si portò la testa tra le mani e si strofinò gli occhi con le dita, come fanno i bambini quando si svegliano. In quel preciso istante, gli venne in mente un’altra serata. Una maledetta serata.
     Aveva appuntamento con uno spacciatore all’interno di un palazzo in costruzione, vicino al locale dove doveva esibirsi un’ora dopo. E sapeva, che senza quella droga, non avrebbe potuto suonare. Era ormai giunta l’ora di salire sul palco. I colleghi cominciarono a innervosirsi per l’attesa. La gente a sbuffare. Il padrone del locale a minacciare. Ma lui era lì in quel nascondiglio, solo con le sue fitte allo stomaco, con il sangue che usciva dalle croste che, per la rabbia, si scorticava. Quando ormai non ci sperava più, l’immagine di un ragazzino gli si avvicinò con fretta. Quando vide che si trattava di un appena quindicenne si agitò ulteriormente perché capì che non aveva quello che lui desiderava. Schiaffeggiò il ragazzo come se la colpa fosse sua, ma poi capì che quella era una ripicca dello spacciatore per i soldi non ancora avuti. Ma la vendetta era ancora più amara. Il ragazzino, tremante, gli consegnò delle pillole, un misto di varie droghe. Lui gliele strappò velocemente, ferendolo alle mani e andò via, inghiottendo le pasticche senza nemmeno aspettare di avere un po’ di acqua.
      Entrò nel locale accorgendosi dell’astio di tutti. Ignorò e raggiunse gli altri. Cominciò a suonare velocemente. Era chiaro. Le pasticche stavano cominciando a fare effetto. Avvertì dei dolori acuti dentro di sé, si gettò per terra. Il sassofono scivolò dal gradino che separava i musicisti dal pubblico, toccando i piedi di un cliente che, felice per la possibilità ricevuta di toccare quello strumento, non si preoccupò di quello che stava succedendo intorno. Lui sudava e perdeva sangue dalla bocca. Dopo pochi minuti era all’ospedale. Dopo pochi giorni, in galera.
      Con amarezza, riuscì ad alzarsi e a portarsi alla finestra per respirare un po’ d’aria. Ormai l’insegna del bar era spenta e lui poté  permettersi di restare lì per un bel po’ di tempo. Si stava avvicinando l’alba.
      Aspettava di morire, anche se si sentiva già morto da tempo. L’idea non gli piacque e allora, con molta difficoltà, avvicinò una sedia alla finestra e sollevò il sax da terra, come se desiderasse suonarlo, come se volesse dimostrare a sé stesso, ma forse di più agli altri, che poteva ancora farcela.
      Si sedette e portò lo strumento alla bocca. Era un sax tenore, per cui, essendo lungo e pesante, tentò di fermarlo trattenendolo con le gambe. Ma niente. Non un suono. Non una nota. Si sentì solo un gemito che, però, era il grido di disperazione del suo corpo, come se volesse dirgli: “che stai tentando di fare? Io non posso venirti dietro. Non ne ho la forza”. Si rese conto di quanto il suo dolore fosse più forte di ciò che gli suggeriva la mente.  
      Cambiò posizione del sax, tenendolo stretto tra le braccia, questa volta come fosse un bambino. Sorrise pensando al fatto che il suo corpo era, senza dubbio, invecchiato. Prima trattava quel sax come fosse una donna e lui ne fosse il compagno. Ora, come se fosse un neonato e lui ne fosse il nonno.
     Guardando quel “bambino” gli vennero in mente tutti gli articoli dei giornali che parlavano di lui. “Il più grande sassofonista di tutti i tempi”, “La sua musica è una preghiera a Dio”. E sorrise pensando che quella musica era  spesso il risultato di uno speedball, la combinazione di eroina e coca. Dopodiché, prendeva il suo strumento e nascevano le più belle note mai udite prima. Nella combinazione giusta, nel tono giusto, nell’espressione giusta.
     Inavvertitamente si ritrovò scaraventato nei ricordi delle sue prime dosi. Aveva tante cose da dire e sapeva che poteva farlo solo con la musica, con il jazz. Era importantissimo per lui esprimerle nella maniera più chiara, in modo che potessero diffondersi nell’aria, che potessero essere fotografate ovunque. Con il passare dei giorni, serata dopo serata, cominciò a sentire il bisogno di qualcosa che lo aiutasse in questo obiettivo. Le droghe gli permettevano di capire per primo le cose che desiderava esprimere, che desiderava tirare fuori, per poi farle vivere sul palco.
       I suoi occhi cominciarono a lacrimare ricordando i suoi fraseggi. Brevi ma caldi. Odiava quegli assoli lunghi e pieni di note. Era convinto che non dicessero tanto. Infatti, lui comunicava di più con poche note e con molti silenzi. Un po’ come dire “ti amo” ad una donna. Poche volte, ma guardarla spesso senza parlare. Se la ami davvero, gli occhi saranno capaci di dirlo ugualmente e lei capirà.
       Le lacrime cadevano lentamente sul sax, una dopo l’altra. Asciugandole si ritrovò a pensare al primo incontro con la cantante Carmen Mc Rae, a quante cose imparò da lei, il suo swing, la sua tonalità, il senso del tempo, la passione, la dinamicità. Si ricordò della volta che registrarono “Nature Boy”, senza provarla prima. Rammentò tutti complimenti che lei gli fece su quanto le piacesse il suo modo di ritardare o anticipare una frase, la sua capacità di capire il momento giusto per una scala cromatica, per una pausa, quelle salite e discese per semitoni alla ricerca della nota giusta per poi “parlare” utilizzandone la tonalità.
      Camminando all’indietro nella sua vita si accorse di non aver amato mai una donna, avute tante, ma amate mai. La sua sembrava una collezione di francobolli. Mille pagine con mille volti di donne. Ognuna di esse un valore, ma nessuna era un pezzo insostituibile, un pezzo raro, un pezzo unico. Eppure tutte sarebbero rimaste fino a quel giorno, come il suo sax. Tutte sembravano sopportare il suo carattere, il suo egocentrismo, il suo odio per la vita dicendo sempre che era un’ingiustizia. Più le trattava male e più lo amavano. Più le stavano vicino e più le mandava via da casa. Eppure lo idolatravano. Forse perché poi, quando suonava, equilibrava la mancanza di tutto il resto. E capì, improvvisamente, del perché ora, era solo, a quella  finestra e malgrado tutto, non ne era pentito.
      Un colpo di tosse lo riportò alla realtà. Alla realtà di un cancro all’ultimo stadio ai polmoni e al fegato. Pochi mesi di vita e ormai era già passato un anno da quando aveva sentito quelle parole. Ogni giorno che viveva era un regalo. Ma un regalo per vivere come? Per vivere cosa?
      Non aveva più fiato per suonare né tanto meno la voglia di farlo. La sua vita non esisteva più da tempo, ormai. E non si può improvvisare su qualcosa che non esiste. Per improvvisare devi avere qualcosa di cui parlare e lui non aveva niente. Nemmeno la droga, ormai, poteva inventargli una vita. E la sua, ormai, era una siringa vuota, un letto macchiato, un sax abbandonato e un’insegna a neon di un bar.
     Però, era così che voleva vivere. Ed era felice di essere riuscito a fare tutto ciò che desiderava, ad essere solo quello che realmente era. Il suono del passato che aveva fino a quel momento ricordato era la sua vita. L’unica che avrebbe mai voluto avere.

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DI CHE SI TRATTA

ciao a tutti,

 apro questo blog per una necessità fortissima che avverto di poter commentare tutto cio' che fa spettacolo... musica, tv, teatro, cinema...
 sono una pianista e interprete jazz, quindi, ho un pò di carte in tavola per poter, quanto meno, "criticare" ciò che è musica. per il resto, per le altre forme di spettacolo, usufruirò del mio gusto e la mia esperienza.
vorrei che tutti coloro che vogliano iscriversi al blog si sentano liberi di partecipare con ogni commento che rientri nel rispetto degli altri e che venga espresso con educazione.
ma troppo ignoranza e poca eleganza c'è in giro e voglio dire la mia.
pubblicherò poco alla volta i miei scritti che mi hanno anche permesso di diventare giornalista pubblicista, di modo che tutti possiate, piano piano conoscermi.
benvenuti a tutti, quindi...

viviinjazz




voci femminili italiane "del jazz"

Quando sostengo che i musicisti di jazz italiani sono solo dei grandi interpreti, dei grandi derivati, gli stessi logicamente, cercano di farmi ricredere. Ma allora, perché non spiegano come mai tra i nomi delle grandi voci femminili, come Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, Anita O’Day, Carmen Mc Rae, Billie Holiday, Shirley Horn, Diana Krall, Dee Dee Bridgewater, Abbey Lincoln, Rachelle Ferrell non ne compare uno italiano? Qualcuno mi farà nomi di donne accompagnate da egregi pianisti italiani che si esibiscono nei locali principali di jazz in Italia o che presenziano nelle manifestazioni importanti, tipo “Umbria Jazz”, manifestazione che cade sempre di più nel ridicolo perdendo di credibilità, presentando personaggi che non hanno nulla a che vedere con il jazz. Conosco queste cantanti.  Sono  brave, hanno una  buona tecnica e una bella voce. Ma nessuna, assolutamente nessuna, può definirsi cantante di jazz. Innanzitutto, le improvvisazioni non si dovrebbero studiare a tavolino. È assolutamente inutile strappare un applauso avendo fatto una modulazione, anche complicata, studiandola prima per ore. Ho sentito una esibizione di “’Round Midnight”, in una importante manifestazione romana svoltasi qualche anno fa  al Colosseo. Meravigliosa. Perfetta. Ma il pubblico ha applaudito a qualcosa che credeva fosse jazz. Sono certa che se lo standard fosse stato ricantato, sarebbe risultato uguale. Non era una interpretazione spontanea e istintiva come dovrebbe essere. Inoltre mi meraviglia che molte di queste cantanti affermino di poter insegnare il canto jazz, usando paroloni del genere “lezioni di canto, di improvvisazione e tecnica jazz”. Ma mi chiedo: “lo sanno da dove viene, come nasce e chi è il vero jazzista? Come si può pensare di poter insegnare il jazz?”, e mi rivolgo anche alle tante scuole che in Italia producono “jazzisti” di ogni specie, che dopo due o tre anni di corso credono di essere possessori della verità e che, al momento di dover effettuare una trasposizione vanno in crisi, musicisti ai quali quando chiedi di suonare uno standard del passato non sanno quale sia, musicisti ai quali non puoi chiedere anima ma solo una valanga di note, alla velocità di una Ferrari guidata da Schumacher, ma con il cuore lasciato in garage. Siamo pieni di cantanti che si reputano le “lady del jazz”, un po’ per vanità, un po’ perché caricate di responsabilità quando vengono presentate da un Pippo Baudo qualsiasi che, di jazz, dimostra non avere conoscenza. Siamo pieni di cantanti che duettano in giro per le trasmissioni televisive, cominciando con una serie di ululati senza senso, citando improvvisazioni più che precise di cantanti del calibro di Frank Sinatra e terminando con acuti freddi destinati a fare solo scena. Non sono contraria alle loro esibizioni. Ma vorrei che si distinguesse la cantante jazz dall’interprete jazz, perché da amante e conoscitrice di questa musica, mi ferisce vedere ingannato il pubblico che, in questo modo, non imparerà mai ad amare il jazz vero, non avendo occasione di conoscerlo e mi ferisce sentir dire che queste donne sono agli stessi livelli di una Cassandra Wilson, di una Diana Krall (che ricordo nella sua comparsa a San Remo come ospite, quando disse chiaramente di non conoscere nemmeno un jazzista italiano). Ci sono delle improvvisazioni sono talmente perfette, effettuate dai jazzisti americani che sono protette dal copyright e esistono versioni ormai note per la bellezza e per l’unicità, ripetute alla nota dai nostri musicisti che però, non precisando quale jazzista stiano citando, lasciano che il pubblico si convinca che la bravura e la genialità sia la loro, come è capitato a me di sentire anni fa, in un noto club di jazz romano, uno dei più grandi sassofonisti tenore italiano prendere applausi suonando lo standard “Body and Soul”, nella stessa e identica versione di Stan Getz. E mi dispiace dire che queste sono le occasioni che allontanano quei pochi conoscitori di jazz, perché si sentono ingannati e non provano nuove emozioni.  Billie Holiday saprà spiegare meglio il concetto. “Quando ti capita una melodia non c’è affatto bisogno di seguire gli stili di altri. La senti e basta. Solo così gli altri sentono qualcosa. Quando canto una canzone, ogni volta la rivivo come la prima volta. Non si può copiare un altro e nello stesso tempo pretendere di arrivare a qualcosa. Se tu copi è perché il tuo lavoro non ha un sentimento sincero e, senza sentimento, nessuna delle cose che fai avrà realmente un valore. Come non ci sono al mondo due persone uguali, così dev’essere anche con la musica, sennò non è musica. A me non riesce cantare una canzone nella medesima maniera per due sere di fila”. Ma voglio terminare con una frase ancora più efficace di Chet Baker. “Non preparo mai nulla prima di un concerto. L’arte non si ripete mai. Non avrebbe senso fare jazz esercitandomi su qualcosa che poi sul palco deve essere diverso, meglio o peggio ma di sicuro diverso, se vuole essere jazz”.


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STAN GETZ




Ogni giorno sempre lo stesso suono proveniente dallo studio in casa di mio padre. Sempre lo stesso suono dolcissimo, pastoso, caldo di un sax tenore. Anche da lontano avvertivo la delicatezza del fiato insinuarsi nel mio corpo e subito dopo la nota, malinconica o virtuosa, swing o bossanoveggiante ma assolutamente autentica, unica, riconoscibile tra tutti i sax tenori. Curiosa come una bambina e attratta come una donna da quella voce, entrai in quella stanza e gridai: “ma chi è?”. Mio padre, con sorriso stampato sul viso, pronuncia quel nome. Stan Getz. E da allora, grazie al mio papà, il mio tutto, il mio mondo, ho conosciuto il più grande sassofonista jazz di tutti i tempi. È chiamato “the Sound – il suono” per rendere giustizia e onore alla sua voce. Un altro grande bianco, un'altra dimostrazione che il jazz non è solo nero. “Il jazz è sostanzialmente una musica fatta dai neri. Ma ci sono bianchi che sanno suonare tanto bene, con tanta originalità quanto un nero. Non sono molti, ma so di essere uno di loro”. Comincia a suonare nell’epoca del be bop e del cool jazz, creando il quintetto “Stan Getz Five Brothers”, tutti sassofonisti tenori (Al Cohn, Zoot Sims, Allen Eager e Brew Moore) che segna l’inizio di un movimento storico nella storia del jazz. Intorno agli anni ’50, nasce il “Four Brothers Sound”, gruppo più complesso, perché unisce quattro sax diversi, e quindi chiavi diverse, tecniche differenti, voci opposte. C’è  Zoot Sims, Herbie Steward e al baritono Jimmy Giuffrè, il compositore del famoso brano “Four Brothers”.  Da qui Getz è “obbligato” a collezionare un successo dopo l’altro, anche perché, entra nel mondo della Bossanova. Il suo primo contatto con questo ritmo è segnato dalla registrazione di “Desafinado” con la quale “permette” alla bossanova di arricchirsi di quegli ornamenti jazzistici giusti per entrare a far parte del repertorio jazz, suonato e cantato, dopo, da tutti i musicisti e dalle maggiori voci jazzistiche. Dopo “Desafinado”, comincia una lunga collaborazione con Joao e Astrud Gilberto, con i quali interpreta le più belle canzoni di Antonio Carlos Jobim: “The Girl from Ipanema”, “Insensatez”, “Corcovado” e tante altre. Stan Getz suona davvero tutti gli standards, dagli evergreen americani più noti alle composizioni più complesse. Suona con tutti i musicisti del cool jazz. A parte tutti i cd di bossanova, di Stan Getz bisogna assolutamente avere i cd “Getz meets Mulligan” e il concerto a Stoccolma con Chet Baker “The Stockholm Concerts” nel quale c’è un Getz che, oltre a dimostrare la sua unicità, risulta straordinario nel riempire quei vuoti che Baker, in difficoltà per la sua dipendenza dalla droga, non riesce a colmare ma che, forse proprio per questo motivo, suggestiona ad ogni nota emessa dalla sua tromba.
Anche Getz ha problemi di droga. Nel ’54 è condannato per uso di stupefacenti e per tentata rapina. In una sua lettera al direttore di “Down Beat” cerca di spiegare la sua disperazione. La sua paura, ammette, è quella di non riuscire a lavorare senza “lei”, senza la dose quotidiana di veleno da spararsi nel sangue. “Capisco che quanto ho fatto ferisce la musica jazz. Dire che mi dispiace non è certo abbastanza. Posso biasimare questo che ho fatto sotto l’urgenza di inventare musica ogni giorno, come il jazz richiede”. Ma se fosse ancora vivo, chi lo ama gli direbbe senz’altro che lo perdona. Si può perdonare tutto ad un musicista che ha saputo regalare, attraverso la sua musica, la voglia di vivere, perché è questo che ha saputo davvero trasmettere. La sua genialità, la limpidezza, l’inconfondibile suono, la fluidità delle sue frasi, l’altissimo livello delle improvvisazioni, una classe illimitata. Il suo jazz è poesia caratterizzata da samba, swing, bossanova, jazz, mescolanze di blues e soul, tutto in una sola parola: Getz. E oggi, appena ne ho l’opportunità, ascolto Getz con mio padre che, ogni giorno ha qualcosa di nuovo da farmi notare, un’improvvisazione particolare, un passaggio inimitabile. E queste emozioni non le puoi dimenticare. Quando, lontana da casa, sento la voce di Stan Getz, ritrovo tutte le parole e i momenti che vivo con mio padre e  questo, fondamentalmente, è il jazz. La capacità di fotografare determinati passaggi della vita di chi sta ascoltando uno standard e di incorniciarli nella mente.
Prima di essere cremato e sparso nell’Oceano Pacifico Getz dice “voglio essere ricordato per tutto quello che ho fatto. Sono felice di far parte del jazz; mi ha permesso di viaggiare per tutto il mondo, ha allargato le mie conoscenze. Sono fiero di essere un uomo di questa musica e per lo stesso motivo voglio che i miei figli e figli dei miei figli siano fieri di me”.

viviinjazz

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RAY CHARLES



“Io sono nato con la musica dentro di me. È l’unica spiegazione che conosco per quello che ho realizzato nella vita”. In questo modo si descrive il  grande pianista e cantante di blues Ray Charles. Scompare il 10 giugno dell’anno scorso, “The genius” lascia definitivamente vuoto lo sgabello del pianoforte, all’età di 74 anni. Nonostante la cecità che lo colpisce intorno ai suoi sette anni, non si deprime e trova nella musica la sua ragione di vita, trasmettendo nei suoi concerti solarità e gioia di vivere e ironizzando sempre la sua situazione. Basta ricordare le partecipazioni in varie pellicole cinematografiche, per esempio nel  film “The Blues Brothers” o partecipando ad una pubblicità dove guida un’automobile nel deserto. Il 20 gennaio è uscito nei cinema un film che racconta la sua vita e si chiama semplicemente “Ray”, interpretato da Jamie Foxx.  Il film percorre nei dettagli più importanti la sua esistenza. Descrive il dramma della cecità che gli ruba tutta la verità sul mondo ma che, quasi crudelmente, gli permette di assistere alla morte del fratello più piccolo di cui Charles si crede responsabile, la scoperta delle sue potenzialità musicali, i problemi dovuti alla dipendenza dalla droga, il rapporto con le donne, la difficoltà di imporsi come musicista nero e la sua battaglia contro i concerti separati tra bianchi e neri nella sua Georgia. Tutto questo viene sottolineato dalle sue musiche, da “Georgia on my mind”, “I got a woman”, “I can’t stop loving you”. È un film che descrive anche la parte negativa dell’artista, la sua durezza, la mancanza spesso di moralità, la vita passata a suonare in locali sporchi e puzzolenti. Il pubblico si accorge, finalmente, che le musiche sdolcinate e malinconiche di un artista, spesso vengono fuori da un’anima sofferente e controversa. Il film nasce ancora prima della morte di Charles che, venuto a conoscenza di questa creazione ha detto: “non voglio che mi raccontiate come un uomo rinsavito. Non sono mai stato un santo. Restituitemi l’anima. Raccontate tutte le cosacce che ho fatto e anche dell’eroina. Scegliete sempre donne belle, però dite che vi ho fatto costruire scuole e asili di musica per i ragazzi poveri che venivano respinti sugli autobus per il colore della pelle. C’è ancora tanto razzismo”.
La sua musica è in buona parte blues, ma ci sono registrazioni di jazz vero, di soul, di country e di pop music. La sua “What’d I say” del 1959 invade l’America  diventando la colonna sonora, per tanti anni, derl R&B e facendosi amare e conoscere anche dal pubblico bianco. Memorabile la sua versione di ”Yesterday” dei Beatles, per non dimenticare di citare il suo grande progetto di “We are the world”, canzone con la quale riunisce un gran numero di musicisti e cantanti con lo scopo di devolvere all’Africa il ricavato delle vendite.
Anche chi lo ha potuto conoscere appena, non potrà dimenticarlo. Sempre sorridente al pianoforte, con il suo “simpatico” dondolìo, la sua voce calda e rauca, quelle sue canzoni a volte malinconiche, a volte energiche, ma sempre trascinanti.
La vita è stata senza dubbio avara con lui, avara e crudele. Ma lui è stato capace, comunque, di vincere. La vita gli ha dato il colore della pelle nera in un contesto politico, sociale e geografico assolutamente bianco ma, alla fine, è riuscito a farsi amare da tutti. La vita gli ha tolto la vista ma è stato capace di dire con la musica quello che non poteva trasmettere con gli sguardi. James Brown, una volta, ha detto: “Ray riesce a vedere cose più belle di quelle che avrebbe guardato se avesse avuto gli occhi sani”.
Nell’aprile 2004 è uscito un cd “Genius Loves Company”, che contiene una serie di fantastici duetti. C’è una sublime “You don’t know me” con Diana Krall, una energica “Fever” con Natalie Cole, una struggente ed emozionante “Sorry seems to be the hardest word” con Elton John. Inoltr, per chi volesse approfondire la sua conoscenza,  esiste una autobiografia “Brother Ray” del 1978.
In una intervista di più di vent’anni fa dice: “la musica esiste da sempre e continuerà ad esistere anche dopo che sarò morto. Voglio solo lasciare il mio segno, lasciare qualcosa di musicalmente valido alle mie spalle”.
Ogni canzone interpretata da lui si trasforma in qualcosa di unico, attraverso il suo tocco assolutamente personale, attraverso il suo trascinare le parole, il suo scandire perfettamente e lentamente alcune parole, il prolungare le lettere finali, le sue “apparenti” esitazioni. Un musicista che vale la pena di conoscere per il suo enorme talento, per la sua forza di vivere, per la sua capacità di “vedere” oltre il buio dei suoi occhi e trovare sempre, in ogni caso, qualcosa che valesse la pena di cantare.

viviinjazz

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RACHELLE FERRELL



È bella, giovane, compositrice, pianista, cantante e arrangiatrice. Purtroppo ancora poco conosciuta è Rachelle Ferrell. Sfido chiunque ad ascoltare un suo cd e a non rimanerne impressionato. Nasce a Philadelphia. Incide solo tre album in dodici anni ma uno più grandioso dell’altro. Collabora con nomi del calibro di Quincy Jones, Dizzie Gillespie, Michel Petrucciani, George Benson, Brandford Marsalis. Riesce perfettamente a fondere la raffinatezza del R&B, il calore del Soul e la passione del Jazz. il suo primo cd è “First Instrument”del 1990. Undici tracce meravigliose, tra le quali una fantastica “My funny Valentine” e una “Autumn Leaves”, autentica perla rara accompagnata da un Petrucciani al pianoforte.
Ha una voce potentissima e una estensione di sei ottave, praticamente una in meno del pianoforte. Ha una tecnica spettacolare, una padronanza completa delle sue corde vocali, riesce ad ottenere suoni che, al primo ascolto, stenti a credere siano veri e  credi siano trucchi di registrazione, arriva ad ottenere dei risultati indescrivibili che nessuno, oggi, ha la capacità di raggiungere. Le sue improvvisazioni sono mature, energiche e precise. Riesce a prendere note a distanza di ottave con una precisione maestrale, senza cadere minimamente in indecisioni. Non stanca. Dopo che ascolti un suo cd sei costretto a riascoltarlo per accertarti che quello che hai udito sia reale. E il tuo stupore continua. Riesce a cantare “You don’t know what love is” con un filo di voce, dolcissima e sensuale per poi impressionarti con “Bye bye blackbird”, con i suoi numerosi “ululati” e con le sue note tenute ferme per tanto tempo. Nel frattempo ti chiedi: “c’è qualcosa che non può fare con questa voce?”.
Tutte le cantanti vorrebbero assomigliarle, avere la sua sicurezza, la sua capacità vocale. Molte di queste tentano di copiarla, rendendo le loro esibizioni monotone e patetiche. Alcune cantanti italiane, soprattutto quelle che credono di avere capacità jazzistiche, credono di essere al suo livello urlando a sproposito, improvvisando in maniera continua, non capendo che  l’improvvisazione ha uno scopo ben preciso. Come detto tante volte, l’improvvisazione serve specificatamente per “dire qualcosa”. Il mio primo insegnante di pianoforte, il Maestro Nucci Guerra mi disse: “Devi essere capace di trasmettere tutto quello che ti passa per la testa e nell’anima. Perfino le cose più futili. Se hai mal di testa, la gente lo deve capire”. Parole semplici che entrarono nella mia testa quando avevo tredici anni e che ancora oggi mi ripeto sempre.
Se improvvisi cercando di somigliare a qualcuno o solo per attirare l’attenzione, non hai capito nulla del Jazz e purtroppo, per chi non conosce l’arte di questa musica, è  facile restare vittime di un inganno da parte di queste cantanti che cercano di imitare le grandi anche nelle movenze fisiche e che cercano di prendere note alte per impressionare, come se la bravura fosse solo nel raggiungere quell’altezza, quell’intensità. L’abilità, purtroppo, non è solo lì. È avvilente come spesso l’Italia non riconosca il vero talento e per l’amore e per il rispetto della musica, ogni cantante italiana dovrebbe essere più onesta con sé stessa e con il suo pubblico, ridimensionandosi e dedicandosi esclusivamente alla musica leggera, come del resto poi tutte tornano a fare, non trovando dentro di loro le capacità per proseguire in altre strade. Nel tempo libero, può essere utile ascoltare Rachelle Ferrell che insegna come dare un suono e un significato a note altissime ma senza “stordire” relegando la giusta importanza all’espressione.
A volte si ha difficoltà a sentire la sua voce per quanto è sussurrata e soffiata, perché solo i jazzisti sanno che puoi emozionare anche solo “accarezzando” la melodia. Chet Baker è un maestro in questo. Sia con la tromba che con la voce.  
Rachelle Ferrell è un genio degno di prendere il posto della fantastica Ella Fitzgerald. Diverso lo stile, diversa la comunicazione, ma per quanto riguarda la tecnica e l’abilità vocale a Rachelle non manca veramente nulla. Inoltre, non ci dimentichiamo che è una grandiosa arrangiatrice delle sue creazioni e che sa suonare il pianoforte in maniera altrettanto grandiosa. Lo dimostra il suo cd “Individuality. (Can I be me?)” del 2000.
“Il compito di una cantante è di ritradurre le parole in emozione, esprimere lo spirito con cui una canzone è stata scritta”, afferma con la sua voce calda in un’intervista.
Quindi, un bicchiere di vino rosso, una candela accesa, magari la vostra metà accanto e Rachelle  Ferrell che “vola” nella vostra casa e il gioco è  sicuramente fatto.

viviinjazz

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