mercoledì 6 giugno 2012

omaggio televisivo a Massimo Troisi



















6 giugno.
Mi chiedo: ci sono voluti 18 anni per mettere su un terribile spettacolo come quello per Massimo Troisi, trasmesso ieri sera da rai uno? 
si comincia con una "Imagine" cantata da una Autieri che non ha emozionato nemmeno se stessa e che, come canzone, non trova motivazione all'interno di un tributo per Massimo Troisi, (che cosa mi significa una canzone sulla pace, sulla guerra, oltretutto in lingua inglese per ricordare un grande attore napoletano?);  un De Caro che ci ha provato con il cuore, ma non è riuscito a colmare i vuoti e a riscaldare l'atmosfera, perfino la comparsa di Ranieri, anche lui deludente nella performance canora... Pochi amici e tutti da lontano... interventi registrati...
Mi chiedo e lo chiedo a Lello Arena e ai tanti amici a cui lui ha dato tanto: ma vi faceva cosi ribrezzo partecipare di persona? non credete che Massimo meritasse di più?
Troppe cose che non c'entrano... appelli per i terremotati che, con tutto il rispetto per il momento che stanno passando, non si capisce cosa significassero in una trasmissione omaggio a Troisi. Capisco l'appello, ma basta pure nel chiedere soldi... considerando anche il secondo appello per i bambini con problemi cardiaci.
una serata tristissima, morta... morta piu di Massimo Troisi che vive nei nostri ricordi.
infatti la serata prendeva "vita" solo quando trasmettevano i suoi pezzi parlati e recitati... dopo, il vuoto, il ghiaccio.
nessun ricordo personale, nessuna descrizione della sua vita, del suo stato d'animo, del suo essere. niente di niente. 
sembrava uno spettacolo improvvisato e preparato dieci minuti prima. 
anche l'egregia presenza di jazzisti ha deluso l'aspettativa di buona musica. Ma non occorreva questo. occorreva cuore ieri sera e mancava da tutti. c'era solo la voglia di poter dire: "io c'ero" ma quello che si è percepito è una poca voglia di ricordarlo con l'attenzione, la stima e l'affetto che Massimo merita.
sarebbe stato meglio il silenzio... più rispettoso. a volte è più efficace. 
























5 giugno. SERATA RAI PER MASSIMO TROISI


Vi ricordate di quell’attore napoletano? Comico e malinconico? Deceduto troppo presto quando aveva ancora tante cose da dire? Mi pare si chiamasse Massimo Troisi.
L’inizio sicuramente ironico di questo articolo è per segnalare l’avvenimento, finalmente, di una serata Rai, dedicato a questo personaggio fantastico del cinema e dello spettacolo italiano.

Timido, dolce, teneramente impacciato, fantasioso. Un viso dai mille volti.
Ci ha fatto ridere, piangere, riflettere…e il 5 giugno, la Rai ha deciso, con estremo ritardo, di dedicare una intera serata, piena di ospiti, amici e critici, per ricordarlo e parlare di lui.
Occorrerà che siano davvero in tanti perche sia una serata riuscita perche, come diceva:

Sapeva parlare di tutto e lo faceva in maniera di versa dagli altri. Non era mai volgare, mai arrogante, mai antipatico eppure andava diretto alle cose, senza mezze misure e sotterfugi. Sembrava non voler pretendere nemmeno attenzione quando parlava.
Se n’è andato in silenzio… come se non volesse disturbare…lasciandoci un sorriso, questa volta amaro…

Puntuali quindi, il 5 giugno, su rai uno…. Tutti attorno a lui…

"E' 'o massimo da' solitudine uno che tiene 'a macchinetta do' caffé per una persona" .M. TROISI

giovedì 24 maggio 2012

L'ELEGANZA IN MUSICA...BRUNO MARTINO

Dimenticato.
Uno degli autori più grandi della musica italiana, un musicista completo, un compositore di altissimo livello. Eppure, molti delle nuove generazioni non sanno chi è e molti se lo sono dimenticato.
Bruno Martino. Comincia prestissimo a lavorare come musicista in rai, ma come sempre accade, è all’estero che inizia il suo successo anche perché il suo tempo storico è  segnato dal fascismo e da un Mussolini che, nonostante la sua passione per la musica jazz, non voleva che il jazz facesse breccia nei cuori degli italiani, ostacolando così il lavoro di chi, come Martino, avrebbe sicuramente reso all’Italia un approccio con il jazz più facile, cosa di cui anche oggi, anche se si dice il contrario, ne sentiamo la mancanza. Ma questo è un altro discorso con un’altra mia personalissima idea del jazz italiano. Ma torniamo a “Bruno”.

 Il suo mondo è composto quindi da jazz, ma nelle sue serate delizia anche con musica leggera italiana, classici napoletani e altri generi musicali, riformulati e ricamati con accorgimenti jazzistici, perche capisce da subito che in Italia non si poteva “vivere” di solo jazz.

Non ha limiti Martino. Spazia in ogni dove e in ogni come, con eleganza e stile.
Compone canzoni simpatiche e altre meravigliosamente struggenti.

Molto probabilmente la composizione che subito gli si associa è ESTATE.
Al di là di un testo semplice ma commovente come tante canzoni di amore, “Estate” si presenta con un’armonia musicale malinconica e suggestiva. La melodia si presta da subito ad essere riletta in chiave jazzistica e uno dei primi grandi musicisti a livello mondiale ad accorgersi della bellezza armonica di questo brano è Joao Gilberto che la interpreta in chiave bossanoveggiante.


Ma “Estate” trova casa anche nell’anima di Chet Baker (http://www.youtube.com/watch?v=XQD1wJtkkU8&feature=related)  e di Michel Petrucciani (http://www.youtube.com/watch?v=YP10H8tA28A&feature=related) che ne formulano varie versioni stupende e che, ricucendosela addosso, la trasformano in una pietra preziosa anche del loro personale repertorio jazzistico. Cantata anche da altri interpreti della musica italiana tra i quali troviamo Mina, Vinicio Capossela e Sergio Cammariere. Ma sono tanti i musicisti jazz e interpreti della musica italiana che la vogliono eseguire nei loro concerti, nelle loro registrazioni, nei loro successi perché “Estate” è davvero un classico dalle mille sfaccettature.

Ma non solo “Estate” fa parte della nostra vita e delle esistenze almeno di una parte di italiani.
“E la chiamano estate”, “Cos’hai trovato in lui”, “Baciami per domani”, “Basta solo un momento”, “Forse”. Un elenco di canzoni straordinarie che, attraverso le vene, arriva fin dentro la parte più profonda del cuore, restandoci per sempre.
Qualcuno, ascoltandole, si sarà innamorato, qualcuno avrà litigato, qualcuno avrà pianto, qualcuno avrà sorriso, ma chi ha vissuto lo stesso periodo musicale sa sicuramente di cosa sto parlando.
Io, personalmente, “non c’ero” e aggiungerei purtroppo. Ma grazie ad una famiglia di musicisti, porto con me, quotidianamente, qualcosa di lui. E non potrebbe essere altrimenti considerando anche la mia professione. Quante volte avrò suonato le sue musiche nelle mie serate? E quante volte ancora le avrò sentite anche per emozionarmi da sola, in casa, in automobile, davanti ad un tramonto di mare, dinnanzi ad un lago freddo di agosto, fantasticando di un amore mai arrivato ma sempre sognato.
E anche oggi, non riesco a farne a meno.

Non riesco a “sostituirlo” con i nostri “interpreti”, non riesco a sradicarlo dalla mia vita, personale e professionale, per dare il posto a nessuno che riesca a colmare la sua assenza.
Abbiamo fame di musicisti come lui.

Riservato, umile e “musicalmente malinconico”, Era definito il “cantante confidenziale” come pochi altri sapevano essere, per esempio Fred Bongusto, di cui parlerò in seguito.


Muore nel 2000, nel più completo silenzio, come se non volesse infastidire nessuno, quasi scusandosi del “rumore”. Anche qui, la televisione italiana pecca… pecca non ricordandosi di lui, pecca non riportandolo alla memoria, pecca non tentando minimamente di fare qualcosa affinchè anche le nuove generazioni possano conoscerlo, per quanto, considerando la qualità di musica ascoltata dalla maggior parte dei giovani di oggi, riesce difficile pensare che Bruno Martino possa trovare uno spazio anche per lui.
Pecca anche, però, chi l’ha dimenticato, chi l’ha conosciuto e messo da parte. Peccano le manifestazioni musicali nel non creare dei tributi, peccano le scuole stesse di musica che non lo menzionano, peccano gli stessi musicisti e interpreti di jazz contemporaneo nel non rappresentarlo, peccano tutti coloro che danno spazio a chi, molto spesso, non meriterebbe, togliendolo a chi ha fatto davvero cultura e ci ha rappresentato nel mondo. Ma questo è il problema di tutti i giorni della cultura italiana.

Muore il 12 giugno, un giorno di estate. Ecco perché, una volta di più, come diceva lui, anch’io… “odio l’estate…”


@diritti riservati
viviinjazz



mercoledì 23 maggio 2012

LESLIE, IL VOLTO DEL JAZZ

Capitolo uno


Era il mese di ottobre del 1930. Era una di quelle notti in cui l’unica cosa che Leslie avrebbe desiderato era morire. Vagava per la città, con la speranza di trovare, per sempre, in un posto qualunque, il suo riposo, la sua tomba, in legno semplice, senza lapide, senza fiori. Nessuna la conosceva, nessuno l’avrebbe cercata. Camminava lentamente, appoggiandosi prima a un lampione, poi a un muro, fissando per terra, come se volesse evitare di inciampare in qualcosa. Aveva un vestito bianco, un bianco da sposa, lungo sino ai piedi, con uno spacco che metteva in risalto la sua gamba esile, gracile, con tutta la sua bellezza di donna da ventiquattro anni. Indossava una scarpa alta, con quel tacco prominente da donna vissuta, come per volersi proteggere e difendere dalla sua ancora fresca ingenuità di fiore sbocciato da poco. Portava una borsa semplicissima e una collana di perle della madre, dalla quale mai si sarebbe separata. Camminava senza meta, senza mai voltare angolo. Era svampita, urtava il suo corpo a ogni ostacolo si trovasse di fronte, senza fare nulla per scansarlo. A volte sbatteva contro qualche individuo che usciva da un locale o da un portone, scontrandosi con sguardi arrabbiati o incuriositi. Sembrava non le importasse dove quel marciapiede conducesse. L’importante, per Leslie, era allontanarsi, il più possibile, da quell’appartamento del secondo piano, dove tutto era cominciato e, dove ora, era tutto finito. Leslie sembrava essere impazzita perché, benché fosse sola, ripeteva ad alta voce: “Clint, perché?”. Chi era Clint? Da dove veniva quest’uomo, così fortemente presente, da indurre una donna a non avere più voglia di vivere?


Capitolo due

Nel novembre del 1925 Leslie decise di lasciare Yale, nell’Oklahoma, per trasferirsi a New Orleans, in cerca di fortuna, quella stessa che rincorreva da sempre, di quella fortuna che mai si era degnata di avvicinarsi al suo corpo.
Orfana di madre dai suoi dieci anni e con un padre in galera per averle ucciso la mamma, colpendola con tutta la forza dei suoi muscoli e la cattiveria coltivata nel suo cuore, prese la decisione di andar via, in una delle sue tante notti passate a guardare il soffitto.
Arrivò nella magica città di New Orleans con speranza, con tantissima voglia di ricominciare da capo, di dimenticare quella che era stata la sua vita sino a quel giorno e iniziarne una nuova.
Appena arrivata in città, cercò un piccolo posto dove stare almeno per organizzarsi e ambientarsi. Trovò una piccola pensione al centro della città, e la cosa le fece piacere, perché si rese conto di essere vicina a tanti locali notturni dove poter cominciare a cercare lavoro, anche come cameriera o guardarobiera. Si fece accompagnare nella stanza, piccola ma accogliente. Un piccolo monolocale che le offriva la libertà di un castello.
“Grazie!” rivolse al proprietario e, rimasta sola, aprì immediatamente la finestra, per fare entrare un po' di aria nuova e pulita.
In silenzio si continuava a chiedere quanto fosse matura quella decisione, quanto fosse sensata. Senza farsi prendere dal panico, tirò un lungo sospiro e, guardandosi intorno, decise di sistemare quella poca roba che aveva messo nella sua unica valigia. Solo allora si rese conto di quanto fosse penoso il suo passato, di quanto poco la vita le avesse dato. Poco più di vent’anni entravano in una borsa di pelle vecchia. Osservando com’era ridotta rise ironicamente pensando che forse quella valigia aveva vissuto più di lei, forse aveva più cose da raccontare.
Finì di mettere tutto a posto in poco tempo e, con molta determinazione, decise di andare in giro per la città. Questo era quello che fece per i suoi primi giorni. Si alzava presto la mattina per imparare a conoscere quel nuovo posto, le sue strade, i suoi negozi.
Una mattina tornò alla pensione con un coloratissimo mazzo di fiori e un giornale con le offerte di lavoro e, sedendosi alla scrivania piccola e consumata, disse: “New Orleans cominciamo”.